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Soia e allevamenti, dalla parte dell’ambiente

Soia, il suo più grande pregio è l’elevato contenuto in proteine, che rischia però di essere al contempo la sua più grande colpa. Anche in ambito zootecnico.

La soia… tutti se la contendono: i mangimisti per l’alimentazione degli animali, i produttori di olio che la preferiscono a quello di palma, le industrie di trasformazione che ne vogliono fare latte di soia (che latte non è) e tofu. Così i consumi aumentano ovunque e gli oltre 360 milioni di tonnellate prodotte nel mondo non bastano mai, tanto che le scorte vanno riducendosi. A fine stagione 2020/2021, le stime dell’USDA (Dipartimento americano all’agricoltura) indicano un calo di oltre l’11%. E potrebbero ulteriormente assottigliarsi se le previsioni sulla produzione, anche essa in calo, dovessero avverarsi.

Stati Uniti, Brasile e Argentina da soli rappresentano l’82% della produzione globale di #soia, mentre l’Unione europea in questo caso conta davvero poco: appena lo 0,7% del totale. Condividi il Tweet

Gli occhi sono puntati su Stati Uniti, Brasile, Argentina, che da soli rappresentano l’82% della produzione globale, mentre l’Unione europea in questo caso conta davvero poco, appena lo 0,7% del totale, producendo poco più di 2,5 milioni di tonnellate. Fra i principali paesi produttori troviamo l’Italia, dove si concentra poco meno della metà della produzione europea, seguita da Francia e Romania. Nel nostro Paese la produzione di soia è prevista in crescita, ma si tratta di “briciole” rispetto al mercato mondiale. Tanto più che vincoli orografici e difficoltà di coltivazione (le piante non Ogm sono più sensibili ai patogeni) ne rendono complicata la coltivazione.

Sulla spinta della domanda il prezzo della soia continua a crescere e aumenta al contempo la pressione per un’estensione delle colture. Un processo che innesca preoccupazioni sulle possibili conseguenze ambientali. La tentazione di sottrarre terreni alle foreste per adibirli alle coltivazioni di soia potrebbe avere conseguenze pesanti sul piano ambientale. Il problema non è nuovo. Già in passato ci si era interrogati sulle conseguenze dell’espandersi delle coltivazioni di soia a scapito delle foreste e della savana brasiliana e argentina. Tanto che già dal 2004 prese il via l’”accordo di Basilea” con il quale si sancivano i criteri per una produzione sostenibile.

Ora le tensioni di mercato ripropongono il tema della sostenibilità della produzione di soia e ci si interroga sulle politiche di sviluppo di questa coltura e sulle scelte per mitigarne l’impatto sull’ambiente. Lo stesso Brasile ha sancito che almeno un quinto delle proprietà dei produttori sia destinato a preservare l’ambiente naturale. Lo ha dichiarato il presidente di Aprosoja Brasil, Bartolomeu Braz, in occasione di un recente incontro promosso dall’ambasciata del Brasile in Italia. Al contempo si sta lavorando per un ideale equilibrio fra zootecnia e foresta per recuperare terreni altrimenti degradati. Duplice, ha sottolineato Braz, il risultato di queste attività: il miglioramento del tenore di vita della popolazione brasiliana e la conservazione del 25% della foresta all’interno delle zone di produzione.

Nonostante i molti progressi, la sostenibilità ambientale della produzione di soia è ancora migliorabile. Vanno in questa direzione le iniziative degli operatori del settore, e in particolare delle industrie mangimistiche. Già dal 2015 Fefac, l’associazione che le riunisce a livello europeo, ha messo a punto le linee guida per l’approvvigionamento di soia sostenibile.

Rientra in questa definizione la soia prodotta senza deforestazione, con buone pratiche agricole e condizioni di lavoro responsabili e rispettose delle comunità locali. Criteri poi ribaditi nelle “Soy sourcing guidelines 2021” presentate al recente congresso della stessa Fefac. Una scelta responsabile che ha consentito sino a oggi un approvvigionamento proveniente per il 78% da aree in cui la produzione, nel rispetto delle linee guida citate, risponde ai criteri di sostenibilità.

In Italia l'approvvigionamento di #soia proviene per il 78% da aree in cui la produzione, nel rispetto delle linee guida del “Soy sourcing guidelines 2021”, risponde ai criteri di #sostenibilità. Ossia non comporta #deforestazione. Condividi il Tweet

Ma come si riesce ad avere certezza che la soia impiegata per la produzione di mangimi risponda a questi criteri? Lo abbiamo chiesto a Lea Pallaroni, segretario generale di Assalzoo, l’associazione italiana delle industrie mangimistiche, aderente alla Fefac.

“Sono le stesse linee guida a fornire agli operatori gli schemi ai quali fare riferimento, ci risponde Lea Pallaroni: “In pratica le forniture devono rispondere a una molteplicità di parametri, alcuni dei quali tassativi. Sulla correttezza delle procedure vigila poi un ente terzo, al quale affidare la certificazione formale. In alcuni casi la procedura è semplificata grazie a una attestazione di sostenibilità certificata all’origine, come ad esempio per le provenienze dagli Usa.”

Già, le importazioni, nota dolente di tutto il nostro comparto agroalimentare. Qual è il fabbisogno di soia per l’industria mangimistica italiana? “Per la produzione di mangimi si impiegano circa 4,2 milioni di tonnellate di soia, decisamente più di quanto l’Italia produca. Ne consegue che dobbiamo rivolgerci per circa l’85% delle nostre necessità ai mercati esterni, importando circa 3,5 milioni di tonnellate.”

Quello della soia è un “buco” importante per i nostri fabbisogni. Si può colmare? “Insieme alla soia dobbiamo preoccuparci del mais, altro “ingrediente” fondamentale nella dieta dei nostri animali, produzione nella quale eravamo autosufficienti sino al 2003. Poi la concorrenza delle bioenergie e la pesantezza del mercato ha sottratto a questa coltura 450mila ettari. Si può recuperare e in questa direzione Assalzoo ha sollecitato politiche di sostegno al settore, promuovendo al contempo la diffusione di accordi di filiera.”

Per #soia, #mais e più in generale per tutto ciò che riguarda l’alimentazione degli animali, si è da tempo al lavoro per ridurne l’#ImpattoAmbientale. Condividi il Tweet

La nostra dipendenza dall’estero per le materie prime di interesse per l’alimentazione animale è in parte legata ai divieti all’impiego degli Ogm. La scienza ci offre però nuove opportunità con le tecnologie del genome editing. Possono essere di aiuto? “Siamo di fronte a un’opportunità imperdibile – afferma Pallaroni – che per di più non ha nulla a che vedere con i problemi sollevati per gli Ogm, non essendoci alcun inserimento di Dna esterno. Non a caso queste tecnologie sono valse un recente premio Nobel ad alcune ricercatrici. C’è da augurarsi che non vi siano opposizioni ideologiche, ma che si lavori per la loro applicazione, che promette vantaggi anche sotto il profilo ambientale, come il minore consumo di acqua e la riduzione nell’uso di agrofarmaci.”

Per soia, mais e più in generale per tutto ciò che riguarda l’alimentazione degli animali, si è da tempo al lavoro per ridurne l’impatto ambientale. Va nella stessa direzione la “formula” degli allevamenti italiani, basati su professionalità ed efficienza. È qui che si ottiene il miglior equilibrio fra ambiente e produzione. Lo dimostra la capacità, confermata negli anni, di ottenere più latte, più carne e più uova con meno stalle e con meno animali. Merito della ricerca e dell’innovazione costante dei nostri allevamenti, che andrebbero definiti professionali e “di precisione”, piuttosto che semplicemente intensivi.

Giornalista professionista, laureato in medicina veterinaria, già direttore responsabile di riviste dedicate alla zootecnia e redattore capo di periodici del settore agricolo, ha ricoperto incarichi di coordinamento in imprese editoriali. Autore di libri sull'allevamento degli animali, è impegnato nella divulgazione di temi tecnici, politici ed economici di interesse per il settore zootecnico.