Sicurezza in mangiatoia, qualità nel piatto
Siamo quello che mangiamo. C’è del vero in questa affermazione. Vale per l’uomo come per gli animali che ci offrono carne, latte e uova. Già, ma cosa mangiano questi animali?
È bene sapere di cosa si cibano gli animali, perché su questo argomento girano molte fandonie. Come quella dei mangimi che “gonfiano” gli animali, frutto di mirabolanti alchimie chimiche. Poi farmaci di ogni tipo, per crescere tanto e rapidamente. Nulla di tutto ciò, semmai è vero il contrario.
Dai mangimifici escono “piatti” e diete studiate e calibrate con ossessiva precisione, da far invidia a un dietologo delle dive. Poi ingredienti naturali di prima scelta e per stare sul sicuro non esiste mangimificio che non si avvalga degli esami di laboratorio, prima di far entrare un ingrediente nella linea di produzione. E quando qualcosa non va, non c’è scusa che tenga: l’ingrediente inadatto viene eliminato, rispedito al mittente. Gli standard di qualità e sicurezza sono al primo posto. Basta visitare un mangimificio per rendersene conto.
Esagero? No di certo. Stando alle risultanze degli accertamenti fatti dal Ministero della Salute su cosa entra nella mangiatoia degli animali in allevamento c’è da stare tranquilli. Lo dicono i numeri, quelli del PNAA,acronimo di “Piano nazionale di controllo ufficiale sull’alimentazione degli animali”, resi noti recentemente dallo stesso Ministero della Salute che ne coordina le attività, insieme ad altre istituzioni pubbliche.
I dati si riferiscono al triennio 2015 – 2017 e raccontano una situazione della quale l’Italia può farsi vanto. Partiamo dalle oltre 26mila ispezioni presso i produttori di alimenti per animali. Se le rapportiamo al periodo al quale si riferisce il piano, è facile constatare che ogni giorno sono stati controllati ben 24 mangimifici, piccoli e grandi, aziendali o industriali che fossero. Molti hanno così ricevuto una o più visite degli ispettori, che hanno provveduto sia a verificare la correttezza formale delle attività, sia le caratteristiche degli stessi mangimi.
A questo fine gli ispettori hanno raccolto quasi 11mila campioni, qualcosa in più di quelli che sarebbero stati necessari. Ogni campione è passato al vaglio dei laboratori per verificarne sia la rispondenza alle indicazioni in etichetta (per i mangimi si chiama “cartellino”), sia l’assenza di sostanze indesiderate.
Quelle che non ci devono essere perché vietate e quelle che possono derivare da contaminazioni, anche accidentali.
Cosa è emerso da questa enorme mole di accertamenti? Che in 887 casi si sono riscontrate situazioni anomale. In altre parole solo il 3,39% dei campioni si è rivelato “non conforme”. Poco, davvero. C’è poi da intendersi su cosa si intende per “non conforme”. Per la maggior parte dei casi siamo di fronte a problemi strutturali degli impianti o a mancanze manageriali. Fra queste la presenza in etichetta di indicazioni poco leggibili o non in lingua italiana, qualche forma di promozione ingannevole in tema di vantaggi salutistici per gli animali, alcune errate indicazioni delle materie prime utilizzate e via di questo passo. Tutte sanzionabili per via amministrativa e con scarse o nulle conseguenze sulla salute degli animali e infine dell’uomo.
Nel 2017, appena lo 0,22% delle ispezioni ha portato a denunce all’autorità giudiziaria. Negli anni precedenti questo valore era doppio e anche triplo. Una conferma che il sistema delle ispezioni e la sempre maggiore consapevolezza degli operatori comporta un più attento rispetto delle regole. Merito anche della politica di responsabilizzazione perseguita da anni dall’associazione delle industrie mangimistiche (Assalzoo), che da tempo si è data un codice per promuovere la produzione responsabile di mangimi, al quale le aziende associate devono fare riferimento.
Tornando alle ispezioni del PNAA, è interessante osservare cosa hanno trovato gli oltre 11mila esami di laboratorio eseguiti sui campioni raccolti. In nove casi (appena lo 0,08%) si è accertata la presenza di farmaci vietati o in concentrazione superiore ai limiti. Poi micotossine (15 casi), qualche presenza (5) di Ogm (vietati, ma tutt’altro che pericolosi), come anche derivati di origine animale non ammessi (13). Insomma casi sporadici, la cui presenza, come evidenzia lo stesso documento del Ministero della Salute, non è da correlare a volontà di compiere illeciti, ma a procedure di lavorazione errate o a condizioni di stoccaggio inadeguate, in particolare negli allevamenti.
E degli ormoni che si dice siano onnipresenti nei mangimi e dunque nelle carni?
Non v’è traccia. Stessa cosa, o quasi, si può dire degli antibiotici.
Per chi ama i dettagli, si è avuta la presenza di antibiotici in sette casi, distribuiti fra mangimi per pesci, suini e ovaiole. Poi coccidiostatici nei conigli (un solo caso). Una nullità, se confrontati con la mole delle ispezioni e dei campioni prelevati. È poi confortante constatare che questi numeri, per quanto esigui, sono nel 2017 inferiori a quelli degli anni precedenti.
Risultati ottenuti grazie all’impegno dei servizi veterinari e alla loro attività di controllo e di indirizzo.
Non meno importante il lavoro delle industrie mangimistiche, la cui serietà professionale è fuori discussione. Poi il mondo degli allevatori, cui compete il compito, non meno gravoso e importante, di accudire gli animali nel rispetto della loro salute, e dunque del loro benessere. Senza il quale, lo sappiamo, non c’è né qualità né margine economico. Una filiera virtuosa, insomma, promossa a pieni voti.