Servono davvero 15mila litri d’acqua per un chilo di carne?
Lo abbiamo sentito tutti centinaia di volte: per produrre un chilo di manzo servono 15mila litri di acqua. Ma è davvero così? Se si va oltre i luoghi comuni o le prese di posizione ideologiche, no. Ci sono infatti molti aspetti che vengono inutilmente considerati, nel calcolo dell’impronta idrica della carne. Altri, invece, vengono ignorati con una superficialità che sarebbe meglio accantonare. In altre parole, il calcolo della Water footprint, di cui sono già state fatte diverse revisioni critiche, presenta non poche aree di miglioramento.
Partiamo dalla prima: non quantifica l’impatto ambientale associato all’utilizzo d’acqua, ma soltanto il volume di acqua utilizzato. Non solo, essa ignora del tutto il contesto specifico in cui avvengono la produzione e l’allevamento. La scarsità di risorse, si sa, è da sempre uno dei principali problemi dell’essere umano. Per questo l’allevamento e la produzione di carne si sono sviluppati maggiormente laddove c’è una naturale maggiore disponibilità di acqua: nord Europa, Italia centro-settentrionale, Brasile, Paesi Bassi, Belgio, Gran Bretagna, Stati Uniti centro-occidentali.
In tutte le aree a maggior densità zootecnica, secondo i dati raccolti a livello globale attraverso lo Water Stress Index, parametro che esprime il rapporto tra acqua utilizzata e acqua disponibile tenendo conto della variabilità mensile e annuale delle precipitazioni, la presenza del bestiame non ha mai comportato un impoverimento delle riserve idriche sotterranee. Dopo secoli di allevamento, quindi, quei luoghi dovrebbero essere delle aree desertiche. E invece non è così.
Con l’impronta idrica, o Water footprint, indicatore ideato dallo studioso olandese Arjen Hoekstra, si calcola di solito la quantità di acqua che viene utilizzata nei processi produttivi. È la cosiddetta “acqua virtuale”, che, quando si parla di carne, include anche quella usata per produrre i mangimi, per l’allevamento del bestiame e nella fase di macellazione.
Altra pecca di questo metodo di valutazione dei consumi di acqua nel settore zootecnico: l’impronta idrica di un prodotto è calcolata sommando l’acqua blu, quella prelevata dalla falda o dai corpi idrici superficiali, l’acqua verde, quella piovana evo-traspirata dal terreno durante la crescita delle colture, e l’acqua grigia, il volume d’acqua necessario a diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione. Secondo alcuni studi, i punti deboli e le diverse incongruenze presentati dal calcolo dell’impronta idrica partono dal fatto che questa non distingue i tre tipi diversi di acqua, sommandoli come se avessero lo stesso impatto sulla disponibilità idrica, il che è un approccio sostanzialmente scorretto.
Come fa notare il biologo e medico veterinario Agostino Macrì sulle pagine de La Stampa del 20 febbraio 2014, “se è possibile pensare che l’acqua blu, se non utilizzata, sarebbe immediatamente disponibile per altri scopi, lo stesso non si può dire per quella verde: è infatti più che discutibile che quest’ultima andrebbe interamente a ricaricare la falda, se non fosse usata”.
E aggiunge: “Le ricerche attualmente disponibili, associate alla messa in discussione dell’impronta idrica come metro di misura della quantità di acqua utilizzata nella produzione di carne, attribuiscono a quest’ultima un impatto sulle riserve mondiali di oro blu nettamente superiore rispetto ad altri cibi a parità di peso, soprattutto perché il principale contributo è rappresentato dall’acqua verde”.
I tre volumi di acqua, dunque, non possono essere considerati equivalenti ai fini dell’impronta idrica e, secondo il rapporto Il ruolo della carne in un’alimentazione equilibrata e sostenibile del Centro Studi Sprim di Milano, “è concettualmente errato sommarli fra di loro in quanto l’acqua verde contribuisce in misura minima al fenomeno della carenza idrica”, che secondo un recente studio costituisce più dell’80% dell’impronta idrica totale in funzione della specie considerata”, viene scritto nel rapporto Sprim: “Alcune ricerche identificano in questo uno dei principali punti deboli del metodo di calcolo, che conduce a un elevato consumo di acqua associato alla produzione di carne”, anche perché “non è corretto assimilare l’utilizzo di acqua verde al prelievo di acqua da un corpo idrico superficiale o dalla falda”.
Insomma, quando si dice che per produrre un chilo di manzo ci vogliono 15mila litri di acqua, non si considera che in realtà di questa solo una parte è stata effettivamente usata per produrlo.
Fonte: Il Fatto Alimentare