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Se non mangio carne sono sostenibile?

Escludere la carne dalla propria dieta è una scelta non scientificamente giustificata che, se fatta per motivi ambientali, va contestualizzata in un insieme di comportamenti più ampio.

“Non mangio carne per scelta ambientale”. Avete un amico che vi ha risposto così ad un invito alla grigliata e vi ha chiesto il veggie burger? Non consumare carne è una scelta molto impattante sullo stile di vita e la salute del singolo e, se allargata alla collettività, sull’economia gastronomica e sulla conservazione degli elementi tipici della tradizione di un popolo. Scelta che non è scientificamente giustificata e che comunque, se fatta per motivi ambientali, va contestualizzata in un insieme di comportamenti più ampio.

Facciamo numerosi viaggi in auto quando potremmo spostarci in bicicletta o a piedi, usiamo packaging degli acquisti (tra spesa e shopping) in plastica o cartone non riciclabile. Facciamo una pessima raccolta differenziata e gettiamo cibo che può ancora essere consumato, cambiamo abiti ancora utilizzabili perché ormai sono passati di moda… come possiamo considerarci sostenibili?

Come singoli possiamo migliorare il nostro impatto ambientale, iniziando da piccoli gesti che però non generano un netto cambiamento del nostro stile di vita e della nostra dieta, nel rispetto delle nostre esigenze nutrizionali.

Uno studio pubblicato su Ecological Economics mette a confronto differenti stili di vita al fine di stimare le impronte ambientali, locali e non, per il suolo, l’acqua, il clima e il potenziale di tossicità per l’uomo. Lo studio considera a tal proposito gli impatti generati dalle scelte collegate all’abbigliamento, agli edifici, alla dieta e alle sue caratteristiche, apparecchiature/strumenti utilizzati, mobilità (tipologia di mezzo di trasporto, uso dell’aereo…), servizi ricreativi, servizi energetici.

Gli autori, attraverso interventi di consultazione dei portatori di interesse, hanno costruito 19 possibili scenari che rappresentassero una netta riduzione degli impatti a solo quanto necessario (Opzione sufficiency) e 17 scenari che potessero essere categorizzati come “green” (Opzione green). La prima delle due opzioni comportava maggiori mitigazioni sugli impatti di trasporto, dei servizi e dei vestiti, mentre l’opzione green ha mostrato maggiori risultati per il cibo e i prodotti manifatturieri.

Con riferimento alla dieta, tra gli scenari con maggiori ricadute positive sull’ambiente si enumerano la “food sufficiency”, che limita il consumo di cibo a 2586 Kcal/giorno, riducendone così il surplus medio europeo (che è del 27%), e la dieta “anti-spreco”, con una riduzione del 12% del valore economico della spesa.

Qui emerge un primo risultato dello studio: la conversione più indolore dalla propria dieta è quella verso una dieta “sufficiency”: si mantengono le stesse abitudini e si eliminano i surplus calorici. Il risultato, già così, sarebbe notevole: -4,9% di emissioni carboniche, -14,4% di consumo di suolo e -16% di consumo idrico. Se si addiziona a questo la riduzione dello spreco (-2,1% di emissioni carboniche, -5,5% di consumo di suolo e -7,1% di consumo idrico) si arriva ad una dieta che è notevolmente meno impattate rispetto alla media europea attuale, senza rinunciare alle proprie abitudini alimentari e alla qualità nutrizionale. Tra i cambiamenti auspicabili è quello meno oneroso, sia a livello economico che di tempo.

Altri scenari alimentari analizzati sono la dieta mediterranea (che comprende anche il vino), la “healty vegan”, che elimina il cibo trasformato, gli zuccheri e le bevande diverse dall’acqua, la dieta con cibo locale per almeno il 50%, quella con soli alimenti di origine biologica, la dieta con soli cibi di stagione: i risultati ambientali della conversione a questi scenari variano da risultati nulli o maggiormente impattanti ad un guadagno ambientale del 3,6% nel caso delle emissioni di gas serra e sostanze nocive per l’uomo.

Sempre secondo lo studio pubblicato su Ecological Economics, le diete vegane permetterebbero di ridurre fino al 14% l’impronta carbonica e fino al 15% l’impronta idrica, mentre del 6,4% e dello 0,2% sarebbe la riduzione che si otterrebbe con una dieta vegetariana, e dunque con la totale sostituzione della carne e del pesce con alimenti di origine vegetale, latte, latticini e uova. Ma una conversione universale dello stile alimentare di miliardi di persone, comporterebbe degli impatti sull’uso del suolo che non sembrano essere altrettanto sostenibili. Lo sostengono alcuni ricercatori americani che, in uno studio pubblicato su Elementa, riportano che le diete che includono un modesto consumo di carne hanno una performance migliore in termini di capacità produttiva (persone sfamate per unità di suolo) rispetto alle diete vegane.

Lo studio infatti distingue la capacità produttiva dei suoli sulla base delle loro caratteristiche intrinseche e pertanto fa un’analisi di efficienza produttiva in termini di numero di persone che possono essere nutrite da una data superficie e tipologia di suolo. Sostanzialmente, servono tipi diversi di terra per produrre tipi diversi di cibo, e non tutte le diete beneficiano in ugual modo di questi terreni. In primis, quando si valuta il consumo di suolo in relazione all’agricoltura, è necessario differenziare i terreni da pascolo che spesso non sono adatti per le coltivazioni, da quelli invece prettamente agricoli.

A fronte di una effettiva esigenza di ridurre gli impatti ambientali è necessario contestualizzare le indicazioni atte a questa riduzione, sulla base di ciò che è più o meno fattibile. Lo studio di Ecological Economics riporta risultati molto interessanti su più comparti: fa riflettere il fatto che una riduzione della mobilità e dell’adozione dei mezzi di trasporto, con un numero maggiore di ore dedicate allo smart-working (e conseguente riduzione del 50% dell’uso dell’automobile), l’uso della bicicletta e spostamenti (ove possibile) a piedi, ad esempio ridurrebbero l’impronta climatica rispettivamente del 9 e del 26%; villaggi e quartieri high-tech con abitazioni passive e alimentati da fonti rinnovabili permetterebbero di ridurre l’emissione di gas a effetto serra fino all’8%.

E ancora, un’economia “collaborativa”, quindi con una maggiore presenza di volontariato, banche del tempo, e scambio di beni all’interno della comunità, ridurrebbe del 17,8% le emissioni carboniche, del 3,8% il consumo di suolo e del 15,8% l’impronta idrica (non di stretta pertinenza dello studio è valutare gli impatti sociali ed economici che tali scelte produrrebbero).

Insomma, se mangio il veggie burger, ma mi sposto in auto senza fare car-sharing, viaggio spesso in aereo per solo diletto, getto il 20% dei beni alimentari che acquisto, preferisco seguire la moda e cambio il mio vestiario in continuazione, non posso certo dire di avere uno stile di vita sostenibile.

È una questione di equilibrio.

Come ricercatrice presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, è coordinatrice tecnico e funzionale di progetti sulla sostenibilità alimentare e la loro attuazione lungo l'intera filiera alimentare. Prima di proseguire i suoi studi di specializzazione in gestione del sistema agroalimentare presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, si è laureata in Dietistica all'Università degli Studi di Milano e ha lavorato come nutrizionista. È coinvolta in progetti volti a promuovere un'adeguata istruzione, apprendimento e comunicazione su temi della sostenibilità nella catena alimentare.