PSA, professor Pulina: “Allevamenti intensivi garanzia di sicurezza”
La recente avanzata della Peste Suina Africana (PSA) ha messo in allarme gli allevamenti suinicoli italiani, che costituiscono una barriera protettiva alla diffusione del virus.
La recente avanzata della Peste Suina Africana (PSA) ha messo in allarme gli allevamenti suinicoli italiani, per le sue ripercussioni sulla salute degli animali e per le gravi conseguenze socio-economiche. A proposito è doveroso però spiegare bene di cosa si tratta, per risolvere dubbi e paure, spesso infondate, dei consumatori. A fare chiarezza ai microfoni di Radio Cusano è il Professor Giuseppe Pulina, Docente di Zootecnica Speciale presso l’Università di Sassari, Presidente di Carni Sostenibili e fra gli scienziati più autorevoli al mondo.
Innanzitutto, cos’è la Peste Suina Africana e perché fa così paura? “La Peste Suina Africana si differenzia dalla Peste Suina Classica, che conosciamo ormai da tanti anni e su cui siamo già molto avanti nella prevenzione. Questa purtroppo non ha un presidio vaccinale e quindi non possiamo vaccinare gli animali per impedirne la diffusione”. Dunque, come spiega il Professor Pulina, è la mancanza di un vaccino il motivo principale per cui una eventuale epidemia di PSA sul territorio nazionale comporterebbe pesanti ripercussioni sul patrimonio zootecnico suino. Questa provocherebbe infatti danni ingenti sia per la salute animale che per l’intero comparto produttivo.
“Si tratta di una malattia virale trasmissibile solo tra animali e altamente contagiosa, che provoca una febbre e poi la morte degli animali. Però non si trasmette all’uomo in nessun modo, né avvicinando gli animali, né consumando prodotti che eventualmente fossero stati infettati da questo virus”, sottolinea Pulina, tranquillizzando i consumatori in ascolto: “Tra l’altro, è un virus in circolazione sul pianeta come miliardi di altri virus con cui conviviamo, che però colpisce il suino, anche quello selvatico come il cinghiale, trattandosi della stessa specie”.
Il fatto di tenere gli animali confinati negli #AllevamentiIntensivi dà livelli di #sicurezza molto elevati. Sono invece gli #animali allevati all’aperto ad essere i più esposti alla #PSA. Condividi il TweetDa dove arriva questo virus? “Il sierotipo trovato in Sardegna è diverso da quello del Piemonte. La situazione sarda ormai è sotto controllo completo, non abbiamo più circolazione virale da quasi 3 anni. Siamo molto vicini al silenzio epidemiologico. Il virus arriva dall’Est Europa, si è espanso a partire dal 2007-2008 nelle regioni sub caucasiche. Poi è andato verso nord, ha preso tutto l’Est Europeo. È arrivato in Polonia, sono stati trovati casi in Germania, poi in Belgio ed è scoppiata in maniera dirompente in Cina, dove ha costretto i cinesi a sopprimere centinaia di milioni di capi di suini per poterla circoscrivere”.
Ma gli allevamenti intensivi, come affermano alcuni, possono veramente agevolarne la diffusione? “Assolutamente no, anzi il contrario”, sottolinea il Prof. Pulina: “Paradossalmente, il fatto di tenere gli animali confinati dà livelli di sicurezza molto elevati. Sono invece gli animali en plein air, cioè all’aria aperta, ad essere i più esposti a questa malattia, se non hanno difese attive, non hanno dei recinti doppi e un controllo sierologico costante. Invece gli animali confinati hanno livelli di sicurezza talmente elevati che, se eventualmente la malattia entrasse in allevamento, lo si verrebbe a sapere immediatamente e l’allevamento verrebbe considerato subito un focolaio, con l’intervento tempestivo delle autorità sanitarie”.
In pratica, gli allevamenti intensivi costituiscono una barriera protettiva alla diffusione del virus, con gli animali sono confinati e controllati e quindi con livelli di biosicurezza senza uguali. Le autorità sanitarie hanno poi dei protocolli rigidissimi a livello mondiale e decidono se procedere all’abbattimento dei capi.
Gli allevatori hanno ormai riconosciuto che il benessere è il primo elemento della qualità dei prodotti ed è nel loro interesse garantirlo. “In molti allevamenti stanno ricostruendo daccapo intere porcilaie per renderle più confortevoli”, racconta Pulina: “Arricchiscono gli ambienti con giochi e fanno di tutto per aumentare il benessere degli animali”.
Se i consumatori di #carne di #maiale possono stare tranquilli per la #PSA, un po’ più di attenzione va invece fatta con la #cacciagione, come la carne di #cinghiale. Condividi il TweetSe i consumatori di carne di maiale possono stare tranquilli, un po’ più di attenzione va invece fatta con la cacciagione, come la carne di cinghiale: “Il Ministero impone una strettissima sorveglianza sulla caccia e sui suidi selvatici cacciati, che devono essere consegnati alle istituzioni, come gli Istituti Zooprofilattici che immediatamente provvedono a verificare se quella carne può essere utilizzata o meno”, chiarisce Pulina: “Questo vale anche per l’industria, in quanto esiste la sorveglianza attiva e passiva fatta dagli allevamenti. Grazie a queste l’industria riceve prodotti garantiti che non hanno mai avuto contatti con suini malati”.
Come mai allora c’è stato lo stop alla caccia nei comuni della Liguria e Lombardia, vietando anche altre attività come trekking, mountain bike, raccolta funghi e passeggiate in montagna? Quali sono i pericoli? “È un aspetto che riguarda l’estrema contagiosità del virus, che viene veicolato anche dalle scarpe o dai vestiti”, spiega il professore: “Chi passeggiando entrasse in contatto con dei residui emessi da un animale infetto se lo può portare appresso inconsapevolmente e se viene a contatto con un allevatore di suini questo poi lo porta dentro l’allevamento. In più, c’è anche la possibilità di diffondere il virus nell’ambiente selvatico, entrare in contatto con altri suidi selvatici e così propagare il virus nell’ambiente”.
Una speranza arriva dalla ricerca: “I suidi selvatici africani hanno sviluppato una resistenza specifica”, spiega il Professore: “Ad esempio, i facoceri sono resistenti. C’è una linea di ricerca internazionale per utilizzare il gene del facocero, che è un gene che appartiene allo stesso genere, i suidi, utilizzando delle linee domestiche per renderle resistenti a questo virus. Siamo avanti nella ricerca della genomica e questa sarà una soluzione”.