No, agricoltura e allevamenti non consumano un’Italia e mezza all’anno
Non ci saremmo occupati di una analisi pubblicata su un blog senza essere passata al vaglio della comunità scientifica, se non fosse balzata alle cronache nazionali veicolato dall’ormai onnipresente Greenpeace. Ma è bene farlo, sempre nell’ottica di contrastare una disinformazione dilagante.
“È la somma che fa il totale”, famosa frase si Totò in un noto film con Aldo Fabrizi, ci torma in mente quando ci capita di leggere lavori del tipo “La sostenibilità della zootecnia italiana: un’analisi a scala regionale attraverso l’impronta ecologica” apparso nel blog Rivista di Agraria.org a firma di Silvio Franco, professore associato di economia agraria presso l’Università della Tuscia.
“Non ci saremmo occupati di una analisi pubblicata su un blog senza essere passata al vaglio della comunità scientifica, se questo pezzo non fosse balzato alle cronache nazionali su noti settimanali e su qualche quotidiano, veicolato dalla ormai onnipresente sulla scena zootecnica Greenpeace, che non perde occasione per dare addosso alla zootecnia nazionale, distraendosi su ben altri disastri ambientali che si compiono quotidianamente in giro per il mondo”, spiega il professor Giuseppe Pulina, Ordinario di Zootecnica Speciale presso il Dipartimento di Agraria dell’Università di Sassari e Presidente di Carni Sostenibili: “L’intenzione dell’autore, probabilmente sorpreso anche lui da tanto clamore, era forse diversa: applicare un suo metodo, non riferito a uno standard internazionale, all’analisi territoriale (provinciale nel caso) delle emissioni di gas serra da parte dell’agricoltura e degli allevamenti. Ma i risultati che ha ottenuto non solo sono minati da una metodologia la cui correttezza è tutta da provare, ma proprio per questo motivo non sono confrontabili e tantomeno sommabili alle emissioni delle altre fonti di CO2 italiane e straniere.”
I risultati ottenuti dallo studio promosso da #Greenpeace sono minati da una #metodologia la cui correttezza è tutta da provare. Condividi il TweetUno dei limiti delle valutazioni LCA, confrontate con gli impatti locali, riguarda il fatto che le filiere sono “spalmate” in modo abbastanza rilevante sul territorio. In altre parole, non è corretto attribuire l’impatto dei capi allevati ad esempio in Lombardia unicamente alla Lombardia, quando alcune parti della filiera, esempio le materie prime, vengono coltivate in altre aree o regioni. È di questa opinione il professor Ettore Capri, Ordinario di Chimica Agraria e Ambientale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, per cui “ tutti coloro che iniziano ad affrontare il tema è bene che ne tengano conto rispettando la bibliografia, ormai storica, sull’argomento. Lo studio, se “decontestualizzato come caso studio è un esercizio scolastico che va bene perché aiuta a riflettere su tutte le argomentazioni in gioco, ma per altre applicazioni, anche puramente informativo-mediatiche, andrebbe rivisto con attenzione dal punto di vista metodologico e dal punto di vista degli obbiettivi (LCA permette di stabilire lo scenario delle argomentazioni in gioco ma non è una misura della sostenibilità che richiede l’utilizzo specifico di indicatori sociali, ambientali ed economici calcolati contemporaneamente nello scenario territoriale oggetto dello studio), aggiunge Capri: “Un contraddittorio sano, non mi stanco di ripeterlo, dovrebbe invitare tutti gli autori dei lavori di questo tipo, tutti i ricercatori del settore – me compreso – a rivedere le sue applicazioni con dati reali del territorio – ricalcolando LCA con dati reali territoriali e relativi indici di sostenibilità. Oggi grazie a tanti progetti di ricerca anche svolti presso l’Università Cattolica disponiamo di questi dati. Perché non usarli concretamente ? Ci vuole uno sforzo nazionale multidisciplinare e multistakeholder che ricollochi il significato di sostenibilità nel contesto dei prodotti e della produzione agricola zootecnica nazionale, altrimenti rischiamo di fare solo confusione.”
L’ISPRA ci informa, con metodi accurati, che l’#agricoltura (tutta) ha emesso, nel 2018, 30.187 tonnellate di #CO2 equivalente: il 7,7% delle #emissioni nazionali totali. Condividi il TweetLo studio dell’Università della Tuscia, se “decontestualizzato come caso studio è un esercizio scolastico che va bene, ma per altre applicazioni andrebbe rivisto con attenzione dal punto di vista metodologico e dal punto di vista degli obbiettivi (la quantificazione della sostenibilità è frammentata per poi poterci speculare)”, aggiunge Capri: “Un contraddittorio sano, non mi stanco di ripeterlo, dovrebbe invitare l’autore a rivedere le sue applicazioni con dati reali del territorio – non solo input per LCA – che sono disponibili. Dovrebbe ricollocare il significato di sostenibilità, perché la sostenibilità non è ambientale, ma è sostenibilità.”
Il problema non è solo il metodo di calcolo, sottolinea il professor Pulina, “ma anche il presupposto che i gas serra emessi a Padova debbano essere assorbiti a Chioggia!” Anche gli inventari nazionali, come quello ufficiale compilato dall’ISPRA, “sono sottoposti a questo vincolo (ci piaccia o meno, le emissioni di gas serra viaggiano nell’atmosfera e diventano, per così dire, patrimonio comune dell’umanità), ma almeno sono rilasciati in un quadro di metodi di rilevazione, elaborazione e interpretazione condiviso a livello internazionale e, pertanto, sono in grado di fornire metriche confrontabili e sommabili.”
Dai dati #ISPRA, le #emissioni nazionali degli #allevamenti ammontano a poco meno di 20 milioni di tonnellate di #CO2 eq., il 5% del totale. Condividi il TweetL’ISPRA ci informa, con metodi accurati, che “l’agricoltura (tutta) ha emesso, nel 2018, 30.187 tonnellate di CO2 equivalente, (il 7,7% delle emissioni nazionali totali), mentre le foreste e il suolo (LULUCF, Land Use and Land Use Change and Forest) hanno sottratto ben 36.266 tonnellate di CO2 equivalente: il settore perciò è l’unico che assorbe più di quanto emetta”, spiega Pulina: “Per quanto riguarda gli animali allevati, le emissioni nazionali ammontano a poco meno di 20 milioni di tonnellate di CO2 equivalente (il 5% del totale); poiché le attività zootecniche occupano circa il 40% della superficie nazionale (di cui una buona parte boscata) e in vaste plaghe ne arredano il paesaggio (Cascine lombarde, alpeggi, pascoli appenninici, Meriagos sardi, ecc..), possiamo senza tema di essere smentiti affermare che su scala nazionale e su dati ufficiali, la zootecnia emette meno CO2 di quanto la superfice da essa occupata assorba annualmente.” Per cui, smentendo a malincuore il nostro Totò, non sempre è la somma che fa il totale.
Tabelle tratte dal report ISPRA (2020) Italian Greenhouse Gas – Inventory 1990-2018.