Metano dagli allevamenti: statistiche, rimedi e opportunità
Secondo alcuni la fine del mondo sarà in gran parte dovuta a flatulenze e ruttini dei bovini, o dei ruminanti in genere. Gli allevamenti di vacche da latte e bovini da carne sono infatti ritenuti tra i principali responsabili delle emissioni di metano e quindi del riscaldamento globale, essendo il metano uno dei principali gas serra. Ma come stanno le cose? Meglio ribadirlo.
Che gli allevamenti abbiano un determinato impatto ambientale è un dato di fatto, al pari di altre irrinunciabili ed importanti attività antropiche. Ma l’importanza della zootecnia, quale settore vitale, soprattutto in molti Paesi in via di sviluppo, è stata ribadita dalla stessa FAO (2013), nel suo rapporto “La zootecnia nel mondo: trasformare il settore zootecnico attraverso gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile”, che evidenza i numerosi contributi apportati alla “Agenda 2030” dal settore zootecnico. Nello stesso rapporto si afferma però che per ottimizzare tali contributi sono necessari cambiamenti nelle politiche e nelle pratiche.
Non v’è dubbio che la produzione di metano, principale gas di eruttazione dei ruminanti, prodotto durante le fermentazioni microbiche nel rumine, siano consistenti e ben poco limitabili. Ma qual è il reale contributo di questo gas al riscaldamento globale? Forse sarebbe il caso di fare un po’ di chiarezza o quanto meno tentare di districarsi nel groviglio di dati che, su questo argomento, possono essere reperiti.
I dati in letteratura sono infatti tanti e discordanti. Nel 2006 il rapporto FAO “Livestock’s Long Shadow” (LLS) stimava che le produzioni animali contribuirebbero per il 18% alle emissioni globali di gas serra e sarebbero responsabili della produzione del 35-40% del totale di metano generato dalle emissioni legate all’attività antropica (FAO, 2006). Stime più recenti della stessa FAO, invece, riducono al 14% il contributo degli allevamenti animali alle emissioni globali dovute alle attività antropiche (Figura 1).
Figura 1. I gas serra prodotti nel settore zootecnico (Fonte FAO)
Altri dati reperibili in letteratura indicano
però che, specialmente nei Paesi con una zootecnia
tecnologicamente sviluppata, il contributo
degli allevamenti è molto più ridotto con valori che variano dal 2 all’8 % del
totale delle emissioni nei Paesi occidentali, dato confermato anche da
Pulina et al. (2011). Mentre in Italia secondo quanto riportato dall’ISPRA (2017), queste si attesterebbero intorno al 3%.
Un altro punto chiave del rapporto FAO del 2013 sopra riportato riguarda il dato secondo cui: “l’introduzione della genetica, di avanzati sistemi di alimentazione, di controlli sulla salute degli animali e di altre tecnologie, negli ultimi quarant’anni ha permesso ai Paesi industrializzati di ridurre il fabbisogno di terra complessivo per il bestiame del 20%, raddoppiando al tempo stesso la produzione di carne”. Dato questo che dovrebbe bastare a ridurre gli allarmismi riguardanti l’invasione di campo, e di terra, che la zootecnia sarebbe in grado di provocare nei prossimi decenni.
Al di là dei numeri e delle statistiche, ciò che si rende necessaria è una reale presa di coscienza del problema che porti ad una visione, e revisione, degli allevamenti verso forme e sistemi più sostenibili. Sempre secondo la FAO, infatti, “un’adozione più ampia delle migliori pratiche e tecnologie esistenti in materia di alimentazione, salute, allevamento e gestione del letame, nonché un maggiore uso di tecnologie migliorate, potrebbero aiutare il settore zootecnico mondiale a ridurre le proprie emissioni di gas serra addirittura del 30%.”
Di seguito due schemi semplificati riportante le migliori pratiche da seguire per la riduzione del metano prodotto in allevamento, da “Mitigation of greenhouse gas emissions in livestock production a review of technical options for non-co2 emissions. Editors: Pierre J. Gerber, Benjamin Henderson And Harinder P.S. Makkar. FAO Animal Production And Health- Rome, 2013” (modificato).
La strada, come si intuisce, è lunga, complessa e anche irta di ostacoli, non ultimo quello di superare la diffidenza, se non addirittura l’ostracismo, verso un settore avversato da alcuni media e, il più delle volte, alimentato da una non corretta informazione.
Agli addetti ai lavori (dagli allevatori ai ricercatori e, non ultimi, ai divulgatori) non rimane quindi che rimboccarsi le maniche e avviare quel percorso virtuoso che peraltro in Italia è già stato in gran parte avviato, per fare dell’allevamento animale un sistema in grado di produrre non solo gas e deiezioni, ma alimenti sani e, per certi versi, insostituibili. Del resto, come dimostra anche la scienza, gli allevamenti sono una parte della soluzione alla crisi climatica ed ambientale in corso, non il problema.