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Latte e prodotti animali: perché il mercato vegano deve inventare nuovi nomi?

In Italia, e non solo, a causa di un fenomeno definito “Meat Sounding” sono sempre di più le persone convinte di acquistare e mangiare carne che invece non può essere considerata tale. E lo stesso vale per latte e latticini. Altre, invece, scelgono deliberatamente di escludere ogni alimento di origine animale dalla propria dieta: ad oggi, secondo i dati Eurispes i nuovi vegani e vegetariani sarebbero il 7,6% della popolazione.

I più convinti sembrano i vegani. Da una ricerca dello Humane Research Council emerge che il 70% di loro torna a mangiare carne, mentre tra i vegetariani i “pentiti” sono l’86%. Al di là di chi rinuncia, a fronte di un numero tale di nuove adesioni allo stile di vita free from meat-libero dalla carne (e per i vegani anche dai suoi derivati), è necessaria un’informazione chiara e trasparente, quella che prescrive, nel caso specifico del latte di soia, mandorla e riso, anche la Corte di giustizia europea.

Dopo le rimostranze dell’associazione tedesca Verband Sozialer Wettbewerb, che si batte contro la concorrenza sleale, la Corte ha infatti sentenziato che il nome delle bevande derivate da alimenti di origine vegetale che tutti conosciamo come “latte di…” viola la normativa UE sulla denominazione dei prodotti alimentari, insomma se non è di origine animale non è latte, anche se ne ha l’apparenza.

Sembra infatti che lo sviluppo prima e denominazione poi dei prodotti vegan si sia fondato sulla ideazione e realizzazione di alimenti simili (sia per quanto concerne le caratteristiche fisiche che organolettiche) a quelli di origine animale, ed è proprio questo che li ha resi riconoscibili e dunque sostituibili nella dieta agli omonimi alimenti di origine animale.

Eppure questo potrebbe trarre in inganno alcuni consumatori, compreso chi vegetariano e vegano non è: sono in molti infatti ad acquistare prodotti vegan, e i motivi sono più che vari (intolleranze alimentari, o presunte tali, scelte dietetiche…): ma al di là delle apparenze, questi alimenti sono ben diversi, si pensi solo alla loro filiera produttiva (accomunare gli uni agli altri non rende giustizia né all’innovazione che i prodotti vegan incorporano, neppure alla tradizione che i prodotti animali raccontano), ma anche e soprattutto alle loro caratteristiche nutrizionali.

Posto che la composizione nutrizionale dello stesso alimento può variare sulla base delle trasformazioni a cui è sottoposto (ad esempio la scrematura del latte comporta una riduzione del tenore di grasso di circa il 90%, i risanamenti termici possono influire sul contenuto in vitamine), i valori nutrizionali del latte animale e della bevanda vegetale che fino a poco tempo fa abbiamo chiamato latte sono molto diversi: il latte animale è naturalmente ricco in calcio, proteine, potassio e riboflavina (vitamina coinvolta nella regolazione di molteplici processi metabolici), le bevande vegetali ad esempio quelle di soia, mandorla e riso, non apportano colesterolo, hanno un diverso contenuto in grassi (nella maggior parte dei casi minore rispetto a quello del latte animale, ma ciò dipende dalla materia prima utilizzata), e i grassi saturi sono ridotti.

Spesso però le bevande vegetali sono addizionate con sali di calcio, vitamina B12 (coinvolta nella formazione dei globuli rossi) e in alcuni casi conservanti. A volte, inoltre, sempre in dipendenza al tipo di materia prima scelta, la concentrazione di zuccheri può essere maggiore rispetto a quelli naturalmente presenti nel latte.

Dunque, al di là di quale dei due “latti”, sia il migliore, animale o vegetale (risposta che di fatto non c’è: la scelta di ogni alimento dipende dalle esigenze, non solo ideologiche, ma soprattutto nutrizionali di chi lo mangia), le bevande vegetali non hanno le stesse caratteristiche nutrizionali del latte.

Lo stesso si potrebbe dire anche ad esempio per gli arrosti e i burger vegetali se paragonati alla carne animale: è soprattutto per questo che la direzione dovrebbe essere quella di concepire una diversa denominazione che contraddistingua i prodotti alimentari, fugando così ogni rischio di fraintendimento al consumatore, garantendogli così il diritto ad una scelta informata, cui molto aiuta l’etichetta: chiamereste mai la trippa minestrone?

 

Gloria Luzzani

 

Gloria Luzzani è assegnista di ricerca presso l’Istituto di Chimica Agraria e Ambientale dell’Università Cattolica. Dopo la laurea in dietistica, ha approfondito le sue conoscenze del settore alimentare grazie alla laurea in Economia e Gestione del Sistema agroalimentare. Da sempre interessata all’innovazione nutrizionale, sostenibile ed economica, svolge la sua attività di studio e ricerca proprio in questi ambiti.

Come ricercatrice presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, è coordinatrice tecnico e funzionale di progetti sulla sostenibilità alimentare e la loro attuazione lungo l'intera filiera alimentare. Prima di proseguire i suoi studi di specializzazione in gestione del sistema agroalimentare presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, si è laureata in Dietistica all'Università degli Studi di Milano e ha lavorato come nutrizionista. È coinvolta in progetti volti a promuovere un'adeguata istruzione, apprendimento e comunicazione su temi della sostenibilità nella catena alimentare.