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La verità sugli “allevamenti intensivi” italiani

La definizione di allevamento intensivo andrebbe sostituita. Al centro della zootecnia c’è oggi il benessere degli animali e la loro tutela per ottenere il meglio, pensando anche alla sostenibilità economica.

La gabbia è una delle immagini accomunate all’idea di allevamento intensivo, emblema di animali sofferenti, costretti in spazi angusti e in ambienti inospitali. Un’idea talmente radicata che persino il Parlamento europeo si è espresso contro l’uso delle gabbie e lo ha fatto a larga maggioranza. Chiamati qualche tempo fa a esprimersi, gli europarlamentari che hanno detto no alle gabbie sono stati 588. Sono 37 invece quanti si sono espressi a favore. Questi ultimi sono dunque “nemici” degli animali, che amano vederli soffrire? Al contrario, sono fra i pochi a conoscere la realtà degli allevamenti intensivi e sanno che le gabbie sono state abbandonate da tempo, perché non servono.

Le gabbie nell’avicoltura da carne non si usano da decenni, mentre negli allevamenti di ovaiole l’Italia è al di sopra della media europea per numero di allevamenti che già adottano sistemi alternativi. Non si impiegano negli allevamenti di bovini (salvo che per rari e precisi motivi) e nemmeno in quelli dei suini, con l’eccezione delle scrofe e vedremo perché. Sopravvivono ancora nell’allevamento dei conigli, dimenticati da Bruxelles anche quando si parla di benessere animale, almeno per ora. Eliminarle in questo caso è ancora complicato, ma si stanno cercando le possibili soluzioni.

Le #gabbie in #avicoltura da #carne non si usano da decenni, non si usano negli #AllevamentiIntensivi di #bovini e nemmeno in quelli di #suini, salvo che per rari e precisi motivi. Condividi il Tweet

Quando ancora sono presenti, rappresentano una necessità tesa a favorire il benessere degli animali e non il contrario. Nel caso dei suini la loro presenza nelle sale parto è imposta dalla necessità di evitare lo schiacciamento dei piccoli da parte della madre durante l’allattamento. È dunque una forzatura puntare il dito sulle gabbie per criminalizzare gli allevamenti, che si insiste a definire “intensivi”, quando invece si dovrebbero chiamare “protetti”. Vediamo il perché.

La prima preoccupazione di ogni allevatore professionale è infatti quella di “proteggere” i propri animali. Accade negli allevamenti confinati come in quelli al pascolo, dove comunque sono previsti ricoveri a protezione degli animali. Proteggerli dalla fame, dagli stress, dalle patologie, dal clima avverso, dai predatori è quanto si realizza in ogni allevamento professionale. Non a caso le “protezioni” citate sono le stesse “libertà” che si incontrano nella definizione di benessere animale: libertà dalla fame, di poter disporre di un ambiente adeguato, dal dolore, dalla paura, dalle malattie, di poter esprimere il loro naturale comportamento senza disagio o paura.

Proteggere gli #animali da fame, stress, patologie, clima avverso e predatori è quanto si realizza in ogni #allevamento professionale. Condividi il Tweet

Partiamo dalla “fame”. Negli allevamenti protetti la prima preoccupazione è quella di fornire agli animali i migliori alimenti possibili, in razioni controllate e verificate analiticamente, prive di ogni fattore anti-nutrizionale. I controlli in laboratorio sono costanti per ogni alimento e le diete sono studiate e adattate alle esigenze degli animali.

Il “dolore”: non c’è allevatore degno di questo nome che si sognerebbe di arrecare dolore a uno dei suoi animali. Non solo per ovvie ragioni etiche, ma perché ogni “dolore” nuoce alla produzione e pesa inevitabilmente sul bilancio aziendale.

Lo stress: la sua influenza è nota. Si ripercuote non solo sulle produzioni, ma anche sulle difese naturali, riducendo l’efficienza del sistema immunitario.

Le malattie: i primi a preoccuparsene sono gli allevatori. Non solo perché ai loro animali ci tengono, ma anche perché un animale ammalato costa due volte: prima per curarlo e poi per le mancate produzioni.

L’ambiente: in diverse tipologie di allevamenti intensivi le porte sono aperte, negli allevamenti di bovini come in quelli di suini.

Gli #AllevamentiIntensivi in #Italia non sono altro che #AllevamentiProtetti, e sono parte della realtà della #zootecnia del Belpaese. Condividi il Tweet

Insomma, gli “allevamenti intensivi” in Italia in realtà non sono altro che “allevamenti  protetti”, e sono parte della realtà della zootecnia del Belpaese. Quando ci fanno vedere immagini di animali ammassati l’uno sull’altro, in ambienti sporchi e polverosi, in precarie condizioni di igiene, siamo di fronte a eccezioni. A volte al limite della liceità e da denunciare. In queste condizioni non solo gli animali non stanno bene, ma nemmeno il portafoglio di chi li alleva ne trae beneficio. Ecco, se ancora vogliamo parlare di allevamenti intensivi, pensiamo a questi esempi negativi. Che sono eccezioni, a volte da perseguire. Gli altri allevamenti, quelli veri, chiamiamoli protetti.

Giornalista professionista, laureato in medicina veterinaria, già direttore responsabile di riviste dedicate alla zootecnia e redattore capo di periodici del settore agricolo, ha ricoperto incarichi di coordinamento in imprese editoriali. Autore di libri sull'allevamento degli animali, è impegnato nella divulgazione di temi tecnici, politici ed economici di interesse per il settore zootecnico.