Il benessere animale nella zootecnia moderna
Così come per tutti i prodotti alimentari, anche la produzione zootecnica è in costante aumento e questo comporta, da parte degli operatori del settore, la costante ricerca dell’efficienza. Questo, è doveroso ammetterlo, ha negli anni comportato delle criticità in quanto alcuni aspetti della sostenibilità, quale ad esempio quello del benessere animale, sono stati messi in secondo piano rispetto a quello economico, il quale è sempre stato il driver principale di una impresa produttiva.
È altrettanto doveroso osservare, però, che seppur con velocità non sempre omogenee tra i vari settori industriali, le cose stanno cambiando e molti imprenditori hanno iniziato a considerare la variabile benessere animale tra quelle rilevanti nella sostenibilità della propria impresa, soprattutto quando la visione è lungimirante: è solo in orizzonti temporali di media o lunga durata che investimenti senza ritorno immediato, come ad esempio lo sono quelli legati al benessere animale, danno i propri frutti.
Nel caso degli animali da reddito, i princìpi previsti dalle cinque libertà dovrebbero essere garantiti ponendo attenzione prevalentemente alla fase di allevamento, ma anche ai trasporti e alla macellazione.
Per regolare questi e altri fattori è intervenuta la normativa, comunitaria prima e nazionale poi, che ha stabilito dei criteri precisi che rappresentano soglie minime da rispettare. All’intervento del legislatore si è affiancato, con una crescita notevole negli ultimi anni, lo sviluppo di una cospicua serie di standard e iniziative volontarie, marchi e certificazioni volti a garantire il rispetto di determinate caratteristiche nell’allevamento che consentano, tra le altre cose, un maggiore livello di benessere.
È ad esempio il caso dei premi per il benessere animale e degli standard per l’allevamento proposti da organizzazioni non governative quali Compassion in World Farming e RSPCA, o di standard di prodotto quali il biologico, per il cui ottenimento sono previsti stringenti requisiti relativi alle condizioni di allevamento.
Oggi la questione del benessere animale viene sollevata soprattutto nei confronti dell’allevamento intensivo, generalmente accusato di garantire minori condizioni di benessere e rispetto dell’animale rispetto a forme più “tradizionali” ed estensive.
Dietro a questa affermazione si nasconde in realtà una questione complessa, ossia l’impossibilità di definire in modo oggettivo quali siano le caratteristiche di un allevamento “intensivo” o “industriale”. Sebbene il termine “intensivo” venga comunemente usato sia in ambito legislativo che nella lingua comune, non ne esiste in realtà una definizione univoca e precisa. Uno dei pochi riferimenti si trova nella Convenzione europea sulla protezione degli animali negli allevamenti del 10 marzo 1976, in cui si definiscono intensivi gli allevamenti “che impiegano soprattutto impianti tecnici che operano principalmente per mezzo di dispositivi automatici”. Una definizione tanto ampia quanto vaga.
Una seconda indicazione, più specifica, viene fornita dall’INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria) in un report del 2012, in cui si identifica l’allevamento intensivo come una modalità zootecnica in cui all’uomo spetta il controllo sia dello spazio che delle risorse a disposizione degli animali. Anche in questo caso, tuttavia, vi è una certa ambiguità: basti pensare che nell’allevamento “al pascolo” del bovino gli animali vengono riparati all’interno di capannoni in caso di neve o freddo intenso: in quel caso si ricorre necessariamente al controllo delle razioni alimentari, dunque delle “risorse” a disposizione del bestiame, e dello spazio da adibire a ciascuno di essi.
Quando il giudizio sul benessere si basa sulle condizioni e sul luogo di allevamento, si tende a guardare con favore l’allevamento al pascolo preferendolo a quello in stalla, considerato più “industriale” e meno rispettoso delle condizioni di benessere degli animali. In realtà, entrambi i metodi presentano dei vantaggi e dei punti di debolezza, ed è importante ricordare che rispondono a esigenze di allevamento diverse, che derivano dalle caratteristiche del territorio e dalla fertilità dei suoli, ma anche dalla sostenibilità economica delle imprese.
Nel caso dell’allevamento in stalla, che prevede ovviamente spazi minori, la gestione dell’animale è più precisa e puntuale: gli animali vengono controllati giornalmente, con la possibilità di cogliere tempestivamente problemi di varia natura connessi, ad esempio, a malattie o problemi nutrizionali. In questo caso, inoltre, è più semplice prevenire eventuali patologie infettive dannose per il bestiame o per l’uomo, aspetto importante soprattutto in ambienti fortemente antropizzati.
Nel caso dell’allevamento al pascolo, tipico dei Paesi nordeuropei o americani che dispongono di ampie superfici agricole, l’animale viene lasciato allo stato brado per gran parte della sua vita. In questo caso esistono certamente maggiori libertà di movimento, ma si deve considerare che i cicli produttivi si allungano e il grado di controllo in caso di malattie, intemperie o attacco di predatori è inferiore.
È chiaro quindi che la distinzione tra estensivo ed intensivo non è così netta, sia perché non esistono delle definizioni univoche, sia perché entrambi i modelli di allevamento sono caratterizzati da pro e contro che devono essere giudicati dopo un’approfondita valutazione a 360° dei fattori in gioco. In generale, quindi, la tipologia di allevamento non è l’unico criterio su cui basarsi per misurare il benessere: infatti, non è detto che un allevamento intensivo con densità elevate, ma gestito in maniera ottimale e con sistemi di stabulazione innovativi, offra necessariamente condizioni di benessere peggiori rispetto a un allevamento più tradizionale con densità minori, ma gestito con minore cura.
Redazione Carni Sostenibili