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Il benessere animale negli allevamenti intensivi

Il dibattito sul benessere animale, specie all’interno degli allevamenti intensivi, ha assunto ultimamente i contorni di un vero e proprio scontro. Il problema, spesso, è che questo è di tipo ideologico, e condotto da persone che, pur scagliandosi contro il settore zootecnico, un allevamento non lo hanno mai visto. Per chiarire un po’ le idee al pubblico, la rivista Eurocarni ha pubblicato il punto di vista di chi, al contrario di molti “esperti” che si vedono online e in tv parlare di allevamento intensivo, sanno bene di cosa tratta. Così, dopo l’intervista ai dirigenti della sede italiana di CIWF, Compassion in World Farming, pubblicata sul numero di aprile, è stata pubblicata la replica del mondo scientifico. Uno scambio ripreso da Ruminantia che pubblichiamo qui integralmente, e che ha dimostrato una cosa importante: “Un punto di incontro può esistere, a patto che si basi su evidenze scevre da qualsiasi condizionamento ideologico“.

 

Allevamenti intensivi e benessere animale, il binomio non è incompatibile

Il tema legato al consumo di carne, ai suoi presunti effetti dannosi sulla salute umana (inizialmente “urlati” dalla stampa generalista, poi ridimensionati alla luce di evidenze scientifiche meno allarmistiche) e, prima ancora, alle condizioni di vita degli animali all’interno degli allevamenti intensivi, può a ragione essere definito un tema “caldo” sul quale il dibattito è particolarmente acceso.

Non sempre la discussione è pacata, soprattutto e purtroppo si sviluppa spesso tra i cosiddetti “non addetti ai lavori” che, anziché avvalorare il loro pensiero con risultati scientifici frutto di studi e ricerche, laddove esistessero, preferiscono “sposare” un’ideologia e farne il loro cavallo di battaglia. Sul numero di aprile di Eurocarni (Mossini A., Compassion in World Farming, quando il benessere animale viene prima di tutto, pag. 40) abbiamo ospitato una lunga intervista ad Annamaria Pisapia e a Elisa Bianco, rispettivamente direttrice e responsabile del settore alimentazione della sede italiana di Compassion in World Farming (CIWF), l’Ong internazionale fondata nel Regno Unito dall’allevatore Peter Roberts nell’ormai lontano 1967.

Invito alla collaborazione

Compassion in world farming, da sempre, concentra la sua attività e le sue iniziative sulla rigorosa applicazione delle norme legate al benessere animale e proprio per questo, come ci ha detto Annamaria Pisapia, non può essere definita un’associazione animalista «perché il nostro impegno è rivolto alla protezione e al benessere degli animali in allevamento», ritenendo però quelli intensivi «incompatibili con il benessere animale. Per questo lavoriamo per proporre soluzioni concrete in un’ottica di sostenibilità ambientale e contenimento degli sprechi alimentari: per noi — ha affermato nell’intervista— negli allevamenti gli animali non devono soffrire nella maniera più assoluta».

Partendo da queste affermazioni, abbiamo pensato fosse giusto dare vita ad un dibattito a distanza, pacato e scevro da qualsiasi condizionamento ideologico, che desse voce agli scienziati, a chi ogni giorno dedica la sua attività alla ricerca e alla sperimentazione con un unico e comune obiettivo: il miglioramento del benessere animale in allevamento.

Iniziamo con Luigi Bertocchi, responsabile del Centro di referenza per il benessere animale presso l’Istituto zooprofilattico sperimentale di Brescia.

Dottor Bertocchi, gli elementi che vi avvicinano a Compassion in World Farming sembrano superiori rispetto a quelli che vi dividono.

«Negli ultimi anni ho avuto occasione di confrontarmi con Elisa Bianco di Compassion in world farming e ho sempre incontrato una persona attenta e interessata a comprendere il lavoro che svolgiamo e le evidenze scientifiche che ne derivano, un atteggiamento di reciproca collaborazione che reputo costruttivo. Certo, le nostre visioni non sempre collimano, ma proprio perché il CIWF non ha un approccio totalmente negativo agli allevamenti intensivi credo si possa coltivare una forma di collaborazione che in fondo ha un unico scopo: quello di migliorare le condizioni di benessere degli animali in allevamento rendendolo sempre più sostenibile. Ciò detto, non possiamo ignorare quello che da loro ci distanzia e che ha origine in un pensiero che tende ad antropizzare gli animali, ritenendo che ciò che rappresenta il “benessere” per l’uomo valga in egual misura per gli animali, un pensiero che noi medici non possiamo condividere».

Qual è la sua posizione riguardo l’incompatibilità tra allevamenti intensivi e rispetto del benessere animale?

«Per alcune specie di animali l’allevamento intensivo può effettivamente ridurre il benessere, ma in moltissimi casi di allevamenti bovini, caprini, ovini e bufalini, affermare che l’allevamento intensivo e il benessere animale sono incompatibili è un errore, soprattutto quando il riscontro è dato dal rispetto delle 5 libertà su cui si fonda e si sviluppa il concetto di benessere animale: libertà dalla fame, dalla sete e dalla malnutrizione, libertà di avere comfort e ripari, libertà da lesioni e malattie, libertà di esprimere i normali comportamenti e libertà da paura e stress. Certo, il traguardo è ancora lontano ed è vero quello che afferma Elisa Bianco quando dice che per il settore delle vacche da latte non esistono in materia regole definite ma generiche, perché le regole definite esistono solo per i bovini che hanno più di 6 mesi di vita. Il problema è ancora lungi dall’essere risolto, anche perché la Commissione che a Bruxelles se ne doveva occupare, alcuni anni fa — per una serie di questioni più politiche che scientifiche —, fu costretta a sospendere i lavori. L’auspicio è che si torni ad affrontare la questione in tempi rapidi anche perché, in ogni caso, il processo che dovrà portare a una sintesi non sarà sicuramente rapido».

L’inefficienza degli allevamenti estensivi

Compassion in World Farming afferma che l’allevamento intensivo sia il più inefficiente per rispondere alla crescente richiesta di cibo, perché basato sulla maggior causa di spreco. Cosa risponde a questa affermazione?

«Che il meno efficiente in realtà è l’allevamento estensivo. Gli studi scientifici dimostrano che l’incremento giornaliero di un animale cresciuto con questo sistema si ferma a 0,5 kg/die, a differenza dell’incremento che si registra in un allevamento intensivo dove un’alimentazione bilanciata e corretta determina la crescita fisiologica di 1 kg/die, riducendo enormemente l’utilizzo di acqua e di alimenti vegetali e conseguentemente lo spreco. La mancata ottimizzazione degli ingredienti che compongono la razione di un allevamento estensivo porterà il bovino a produrre meno e ruminare di più, producendo di conseguenza più gas e feci e causando un maggiore inquinamento ambientale. C’è poi un altro aspetto da tenere in considerazione e riguarda il notevole quantitativo di sottoprodotti di origine industriale che anziché essere smaltiti, con relativi costi e impatto ambientale, possono essere inseriti nella razione alimentare fornita agli animali allevati col metodo intensivo. Parliamo ad esempio, tanto per citarne alcuni, degli stocchi di mais, della barbabietola da zucchero, del pastazzo di agrumi, delle trebbie di birra, delle bucce di soia, tutti ingredienti che in un allevamento estensivo non troverebbero impiego e il cui smaltimento determinerebbe un costo economico e un impatto ambientale di non poco conto. Si parla molto in questi ultimi anni di economia circolare, fondata sul concetto che ciò che la terra produce alla terra deve tornare in un’ottica di sostenibilità ambientale. Una visione non solo condivisibile, ma realizzabile anche attraverso gli allevamenti intensivi, all’interno dei quali il primo a essere eliminato è proprio lo spreco e questo può essere fatto garantendo a pieno il benessere animale».

Confronto sereno

Sulla stessa lunghezza d’onda di Luigi Bertocchi si posiziona anche Alessandro Fantini, medico veterinario e titolare della Fantini Professional Advice, secondo il quale il benessere animale e la produzione di latte sono strettamente connesse e la sostenibilità degli allevamenti intensivi è garantita proprio «dai ruminanti — afferma — che sono gli animali più ecologici perché riescono a trasformare la fibra e l’azoto non proteico. Nella mia lunga esperienza professionale posso dire di aver sempre incontrato allevatori che appena hanno potuto hanno garantito al loro bestiame spazio, luce, assistenza scrupolosa ad ogni singolo soggetto applicando anche quando non esisteva nessuna normativa al riguardo il meglio del benessere, consapevoli che proprio in questo concetto si concentrano produzione e profitto. Certo, se prendiamo l’esempio dei conigli le cose stanno molto diversamente e qualcosa obiettivamente dovrà essere fatto, perché proprio la mancanza di luce e di spazi adeguati, all’interno degli allevamenti cunicoli, determina una serie di rischi sanitari che possono essere affrontati e risolti solo con l’impiego di antibiotici con le conseguenze del caso.

Personalmente sono favorevole a una collaborazione con Compassion in World Farming, perché sono convinto che nel confronto sereno e nel compromesso sano si possa trovare la soluzione dei problemi. D’altra parte non si può nemmeno pensare che la crescente popolazione mondiale destinata a raggiungere i 9 miliardi di persone da qui al 2050 potrà essere sfamata con un’alimentazione basata solo ed esclusivamente su proteine vegetali».

Come ha affermato ad un recente convegno Giuseppe Pulina dell’Università di Sassari, «il problema non sta tra animali e uomo, ma tra uomini che hanno fame e altri ben nutriti».

Nel settore avicolo la normativa ha trovato piena applicazione

Nel comparto avicolo sul benessere animale molto è stato fatto. Affermare però di aver risolto completamente il problema, secondo Elisa Bianco, è forse un po’ azzardato perché la normativa deve ancora essere correttamente implementata. Ne parliamo con Leonardo James Vinco, responsabile del Centro di referenza per il benessere in avicoltura all’Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna con sede a Brescia.

Dottor Vinco, qual è la situazione negli allevamenti italiani?

«Direi che il settore avicolo è un passo avanti rispetto ad altri. È stato il primo a essere interessato da norme verticali, ossia specie-specifiche. L’implementazione della Direttiva ovaiole è stata molto travagliata, ma oggi è completata anche se con anni di ritardo. Non bisogna dimenticare che questa norma ha causato uno stravolgimento epocale con pesantissime ripercussioni sul settore. Oltre ad affontare ingenti investimenti per ridisegnare i propri allevamenti, gli allevatori hanno anche dovuto reinventare e reimpostare il sistema di produzione che si era sviluppato con anni di esperienza adattandolo ai dettami della nuova Legge. Dopo un iniziale periodo di chiare difficoltà gestionali, con ripercussioni negative anche sul benessere animale, oggi la situazione è migliorata, tant’è vero che la Commissione europea, dall’implementazione di questa Direttiva, ha imparato molto: non a caso l’attuale piano strategico per il benessere animale prevede di focalizzare l’attenzione sull’implementazione di normative esistenti più che emanarne di nuove.

Riguardo il pollo da carne l’applicazione della normativa è stata più semplice perché non ha comportato grosse ripercussioni sul sistema di allevamento; direi che le difficoltà maggiori sono state affrontate dai servizi veterinari addetti ai controlli più che dagli allevatori. La normativa broiler risulta quindi implementata, anche se dobbiamo dire che quello che manca è un’uniformità nella raccolta e trasmissione dei dati relativi alle ispezioni fatte per il rispetto del benessere animale. Il Ministero della Salute, in collaborazione con il Centro di referenza nazionale per il benessere animale (Crenba), sta lavorando alla creazione di una banca dati dove fare convergere tutti i risultati delle ispezioni fatte, allo scopo di avere un chiaro quadro della situazione».

Allevamenti avicoli intensivi e benessere animale. C’è a suo avviso incompatibilità?

«Dagli anni Cinquanta ad oggi sono notevolmente cambiati sia l’allevamento che la percezione del rapporto con gli animali. L’immagine che la maggioranza delle persone ha dell’allevamento intensivo è negativa. Si pensa che l’allevamento moderno sia meno rispettoso del benessere degli animali se confrontato con il passato. Il pubblico guarda con sospetto il fatto che gli animali vengono tenuti al chiuso, pratica che in realtà garantisce una maggiore protezione da malattie. La Direttiva pollo da carne è la prima norma di legge che ricorre all’utilizzo di parametri animal based per la valutazione del benessere animale. Questo significa che indici di benessere misurati direttamente sugli animali saranno usati accanto agli indicatori indiretti (che valutano strutture e gestione), i quali non necessariamente risultano in un comprovato miglioramento del benessere animale. L’identificazione di validi indicatori di benessere animale permetterà di valutare in modo oggettivo il reale stato di benessere in allevamento. Allo stato attuale, per esempio, un indicatore valido è assicurato dalle lesioni plantari che vengono valutate su tutte le partite di polli da carne inviate al macello. La loro presenza è direttamente correlata all’umidità delle lettiere su cui sono allevati i polli; attraverso la valutazione della loro incidenza e gravità è possibile capire se gli animali sono stati allevati o meno su lettiere idonee: questo è un dato sicuramente oggettivo».

Qual è la sua posizione rispetto all’idea che gli allevamenti intensivi rappresentino la soluzione meno efficiente per rispondere alla crescente domanda globale di cibo?

«Il successo di questo settore sta proprio nell’ottimizzazione delle risorse. La selezione genetica ha permesso di selezionare animali capaci di convertire l’alimento molto meglio che in passato. L’allevamento in ambienti controllati e protetti da malattie limita episodi di mortalità e ottimizza le performance produttive, riducendo gli sprechi».

Quali sono i risultati dei più recenti studi scientifici in merito al grado di conversione dei cereali presenti nella razione alimentare destinata agli avicoli?

«Oggi un ciclo medio di produzione di polli da carne chiude con un indice di conversione 1,7. Si tratta di un parametro che non ha paragoni in nessun altro settore zootecnico. In altri termini, si ottiene 1 kg di carne con kg 1,7 di mangime: credo sia difficile parlare di cattiva conversione. Non a caso la produzione di pollame è particolarmente in crescita nei Paesi emergenti, dove ci si orienta verso la produzione di proteine nobili a costo ridotto. Anche negli Stati più sviluppati, tuttavia, è in aumento il consumo di carni bianche. Rispetto a polli di vecchie linee genetiche i miglioramenti sono stati notevoli, ma è probabile che la recente introduzione della genomica nella selezione genetica possa portare ad ulteriori miglioramenti».

Gli allevamenti intensivi e il benessere animale possono coesistere a suo giudizio in un’ottica di sostenibilità ambientale?

«Certamente in Italia vengono allevati circa 600 milioni di avicoli solo per soddisfare le richieste del mercato interno. Sarebbe impossibile allevare un numero così elevato di animali al di fuori degli allevamenti industriali. La dispersione di un tale numero di animali sul territorio nazionale renderebbe ingestibile il controllo igienico-sanitario, con gravi ripercussioni non solo sul benessere animale ma anche sulla sanità pubblica. Un esempio è il diffondersi dell’influenza aviaria in Cina, dove lo stretto contatto tra persone e animali non permette l’applicazione di minime misure di biosicurezza. Le ditte di selezione genetica oggi rispondono a quelle che sono le richieste di mercato, sono in grado di fornire all’industria avicola ceppi a lenta crescita con più elevato indice di conversione alimentare, adatti ad essere allevati in condizioni estensive, oppure ceppi a rapida crescita con ridotta conversione da allevare in allevamenti industriali. Chi decide la strada da prendere è il consumatore e l’industria avicola produce in base a quello che viene richiesto. In Inghilterra, ad esempio, viene prodotto un tacchino tradizionale natalizio di kg 5 venduto al prezzo di € 100,00, ma è chiaro che rappresenta un prodotto di nicchia non certo alla portata di tutti».

 

Fonte: Eurocarni

Professore Ordinario di Chimica Agraria e Ambientale, Università Cattolica del Sacro Cuore. È membro del gruppo di lavoro PROMETHEUS dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA). Dal 2009 è direttore del centro di ricerca sullo sviluppo sostenibile OPERA, con sede a Bruxelles e a Piacenza. Dall’inizio della sua carriera databile 1987 ha svolto ricerche sugli impatti dei contaminanti nell’ambiente e nei prodotti alimentare, sugli organismi animali e sull’uomo, studi che oggi integra nelle sue indagini di valutazione del rischio.