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“Hamburger Frankenstein”: la carne fasulla dei Re Mangioni

La promozione su scala globale della carne finta, sia essa sintetica o vegetale, è ormai iniziata, con investimenti miliardari. Un improvviso desiderio da parte di alcuni imprenditori di salvare il mondo? Può darsi. Anche se la storia della carne fasulla ricorda più quella dei Re Mangioni.

Perché celebrità come Leonardo di Caprio, imprenditori come Bill Gates o i miliardari dietro il finanziamento del rapporto EAT-Lancet, o ancora colossi multinazionali del settore alimentare stanno investendo risorse da capogiro sugli hamburger vegetali e la carne sintetica? Perché proprio dagli USA, patria del vero hamburger di succosa carne bovina, i protagonisti dell’agricoltura globalizzata e dell’economia digitale hanno avviato in grande stile il lancio della carne fasulla?

Hanno solo fiutato nuovi affari plurimiliardari, o vogliono davvero salvare il mondo dai disastri del cambiamento climatico come dei veri supereroi di Stan Lee? Qualunque sia la risposta, a me più che ai personaggi dell’Universo Marvel fanno venire in mente un’altra storia, che parte dal mais e ricorda i Re Mangioni della filastrocca di Gianni Rodari. Sì, quelli che vogliono mangiarsi tutto il cibo che trovano, anche quello degli altri (mettendo così fine alla propria dinastia).

Non sono affatto contro l’innovazione né contro la tecnologia, perlomeno quando usate in un certo modo, ma se da una parte in campo agricolo certe scoperte o appunto innovazioni hanno salvato intere popolazioni da fame e carestia, dall’altra negli Stati Uniti d’America si è assistito negli scorsi decenni a una corsa sfrenata agli ibridi supertecnologici di mais da parte di alcune multinazionali Food Tech. Un fenomeno paradossale, che ha causato un costante surplus produttivo dagli effetti a tratti inquietanti.

Il mais in perenne esubero ha di fatto controllato e spinto oltre ogni ragionevole fabbisogno nutritivo la filiera zootecnica d’oltreoceano, portando questo popolo a consumi di carni praticamente doppi rispetto ai popoli mediterranei. Non è un caso se proprio negli USA sono nati i movimenti antagonisti al settore della carne, così come le condanne al gigantismo impersonale degli allevamenti intensivi, prima di approdare di rimbalzo dalle nostre parti.

I poveri animali non si potevano mangiare tutto il mais dei Re Mangioni

Con questo surplus dei mangimi destinati agli animali da allevamento, bisognava che anche gli umani dessero il loro contributo. È nata così la produzione dei sottoprodotti trasformati di questo cereale, destinati alle tavole nordamericane. Tanto per fare qualche esempio, i derivati chimici del mais sono un componente delle patatine americane, delle dorate panature di crocchette e cotolette, di dolcificanti come lo sciroppo di fruttosio contenuto nelle bibite gassate e in altre bevande.

Quest’ultimo, in particolare, noto anche come “High-Fructose Corn Syrup”, è il principe dei derivati del mais: è maledettamente dolce, tanto da essere impiegato in un’infinità di prodotti alimentari. Purtroppo, però, ha anche effetti tossici, o comunque di alterazione dei naturali sistemi di controllo metabolico dell’energia, tali da rendere i nostri cugini d’oltreoceano fatalmente obesi e perennemente affamati. Se andiamo più sul difficile, sostanze come amido modificato, maltodestrine, acido ascorbico, lecitina, destrosio, oli di semi vari, gomma xantana, che troviamo in molti alimenti Made in USA partono sempre dai derivati chimici di questa pianta.

Come apprendisti stregoni, i Re Mangioni partendo dalle loro tecno-piante hanno sviluppato e promosso nel mondo il concetto di tecno-cibo: l’idea di un alimento senza legami con un campo coltivato o men che meno con una filiera agricola definita, riproducibile con materie prime fabbricabili in qualunque parte del globo, buono per ogni bocca, in grado di raggiungere ogni angolo del pianeta, senza alcuna appartenenza culturale o geografica.

Gli effetti di una sovrapproduzione pianificata di mais

La sovrapproduzione pianificata di mais ha rappresentato una fonte inaudita di calorie, prodotta senza alcuna correlazione con i reali fabbisogni nutritivi della popolazione: un’abnorme massa alimentare che, dopo aver rimpinzato questo popolo di allegri ciccioni, si è fatta arma di conquista per i nostri Re Mangioni. Tramite esportazioni di mais a prezzi irrisori, gli Stati Uniti hanno infatti saputo creare un formidabile strumento di condizionamento politico di Paesi in deficit alimentare, scardinando però i loro sistemi agricoli, sicuramente meno competitivi e tecnologici, ma forse più “democratici”.

Come i visi pallidi che hanno annientato gli indiani nativi, così il loro potente alleato vegetale ha finito per eliminare tutti i concorrenti dalla fattoria, come alberi da frutto, avena, erba medica, in una tavolozza colorata di produzioni che solo un secolo prima garantiva biodiversità ed equilibrio dietetico ai primi coloni; di fatto il mais in eccesso produttivo ha finito per trasformare il cuore agricolo americano nella più sterminata monocultura che si conosca, quella che oggi non a caso si chiama “Corn Belt”: una monotona, monocromatica prateria, gialla d’estate e nera d’inverno.

Forse non era proprio ciò che il Presidente Jefferson si poteva immaginare un paio di secoli prima, quando profetizzava gli Stati Uniti come una terra di felici e pacifici contadini, spina dorsale economica ed identitaria di questo nuovo Paese. A quei tempi, un americano su quattro aveva una fattoria e sfamava la sua famiglia, oltre ad ulteriori 12 compatrioti. In meno di un secolo gli agricoltori negli USA sono diventati 2 milioni in tutto, ma riescono a sfamare tutti gli altri 320 milioni e passa di abitanti, anche se mediamente non hanno un soldo e campano con gli stipendi fissi consentiti da altri lavori non agricoli che riescono a trovare.

La dominazione tecnica delle multinazionali Food Tech ha reso gli agricoltori sudditi della tecnocratica pannocchia, in gran parte sfrattati dai terreni che avevano colonizzato solo un paio di secoli prima e nella paradossale condizione di essere circondati da un oceano di mais alimentare, ma di non poterne usufruire direttamente per il proprio sostentamento.

È qui che la storia della pannocchia si lega a quella del suo degno erede, l’hamburger fasullo

I nostri Re Mangioni, dopo gli sconquassi alimentari di questo folle regime alimentare, ci ripropongono in altra salsa il cibo chimico, stuzzicando questa volta più che lo stomaco, ormai decisamente sazio, le nostre paure ambientali e la fanfara delle cassandre animaliste e vegane.

La vera sfida dei Re Mangioni odierni, già vinta negli USA ed in molte parti del globo con il controllo della produzione di commodities agricole, è quella di insinuarsi ora negli stili di vita mediterranei, mangiandosi i valori immateriali più che nutritivi dei nostri prodotti. Come l’appartenenza al territorio, la socialità, la riconoscibilità dell’alimento come natura vuole, animale o vegetale che sia. Il tutto, giocando sull’inganno di poter salvare il pianeta con gli intrugli e le provette.

È un quadro paranoico? Forse. Ma leggere l’etichetta del tecno-hamburger vegetale, comprensibilmente ribattezzato “Polpetta Frankenstein”, come ha fatto Susanna Bramante sulle pagine di Braciamancora, può chiarire meglio le idee. Prendiamo il “Beast Burger” di Beyond Meat (notare il nome per favore). “La sua lista degli ingredienti, a parte l’acqua, è una sequela di schifezze prodotte in laboratorio e assemblate nella migliore tradizione fordiana”, scrive la dottoressa Bramante commentando tra parentesi:

  • Acqua (“attento, lettore, è il primo ingrediente della lista, ossia quello maggiormente presente”);
  • proteine isolate di pisello (“non il rotondo legume che viene dal campo”);
  • olio di canola (“è estratto con presse e solventi e poi raffinato, deriva dalla colza ed è arricchito con acido oleico per somigliare maggiormente all’olio di oliva”);
  • olio raffinato di cocco (“non proprio il massimo per i nutrizionisti, visto che detiene il record del più basso livello di acidi grassi insaturi”);
  • miscela di estratti vegetali (“non quelli belli freschi delle pubblicità dei nostri minestroni”);
  • fosfato ferrico (“ci vuole la chimica, visto che non c’è il naturale ferro eme della carne vera”);
  • vitamina B12 (“è necessario aggiungerla altrimenti qualcuno crede che sia come la carne vera e rischia le gravi malattie da carenza”);
  • vitamina A palmitato (“poiché è carne fasulla bisogna mettere anche questa, altrimenti vengono le rughe”);
  • estratto di annatto (“alzi la mano chi sa cosa sia…vabbè ve lo dico io che mi sono documentata: un colorante giallo rossiccio che deriva da una pianta amazzonica);
  • cellulosa di bamboo (“così il prodotto trattiene l’acqua di prima”);
  • metil-cellulosa, amido di patata, aromi naturali, estratto di lievito, sale, olio di girasole, L-cisteina idrocloridrato (“altrimenti manca questo amminoacido essenziale tipico della carne vera, irrinunciabile durante l’infanzia”);
  • lievito disidratato, gomma arabica, estratto di limone (“se no perde qualità, lo dicono loro”);
  • acido ascorbico (“per mantenere il colore, dicono sempre loro; se no diventa scuro come l’insalata dopo tre giorni dico io”);
  • amido modificato alimentare (“lo dicono sempre loro e io aggiungo: ci mancherebbe altro!”);
  • acido acetico (“la carne vera è acida di suo, qui bisogna aggiungerlo se no non si conserva”);
  • aroma naturale fumo (“perché? Altrimenti sa di cavolo?”):
  • acido succinico (“non posso mica dire tutto, stavolta lascio un po’ di suspence su questa ennesima misteriosa sostanza”);
  • estratto di barbabietola (“altrimenti resta di color marron come il cibo per cani”);
  • glicerina vegetale (“se no in bocca, più che un hamburger, sembra un pinzimonio, mi viene da dire”).

“Ognuno mangi ciò che vuole, per carità”, aggiunge Susanna Bramante: “Ma la storia della chimica alimentare a stelle e strisce insegna come la scarsa attenzione al legame sociale e territoriale di un alimento, l’ossessione per la produttività a tutti i costi e la riduzione del cibo a macchina spazzano via l’identità dei popoli e la loro stabilità sociale.”

L’hamburger vegetale mi sembra ricalchi lo stesso modello economico che i Re Mangioni hanno imparato molto bene, quello di produrre un alimento perfettamente artificiale che si sostituisca in toto a filiere rurali fatte di uomini e animali, facendo leva sui nostri sensi di colpa di peccatori ambientali e spacciando astute ed aggressive mosse di marketing per scelte etiche, green e responsabili.

Anche io, come Susanna Bramante e molti altri, seguirei il suggerimento di tenerci cari “i prodotti della nostra cultura mediterranea come natura li ha fatti: alimenti in grado di farci cogliere il senso immateriale del cibo”. E visto che mi piace riassumere interi concetti in poche parole, concludo questa riflessione con uno slogan alla Twitter: alla carne spiritata dell’hamburger fasullo, preferisco la carne spirituale di casa nostra.

Giovanni Lugaresi, medico veterinario

Il Progetto “Carni Sostenibili” vuole individuare gli argomenti chiave, lo stato delle conoscenze e le più recenti tendenze e orientamenti tecnico scientifici, con l’intento di mostrare che la produzione e il consumo di carne possono essere sostenibili, sia per la salute che per l’ambiente.