Ferro eme, carne rossa, cancro: l’associazione non sussiste
Secondo una revisione critica degli studi presi in considerazione dalla IARC e delle sue molte incoerenze metodologiche, l’associazione ferro eme, carne rossa e cancro non sussiste. Vediamo perché.
La carne rossa è una delle fonti alimentari più ricche e affidabili di ferro eme, che è la forma più assimilabile e biologicamente più utile alle nostre funzioni vitali rispetto al ferro non eme dei vegetali. Questo composto endogeno della carne è però stato identificato dalla IARC come un componente che potrebbe teoricamente essere responsabile dell’inizio o della promozione del cancro al colon, mediato attraverso la formazione di nitrosamine e/o dall’ossidazione lipidica. Oggi però, grazie ad una revisione critica degli studi presi in considerazione dalla IARC, finalmente sappiamo che l’associazione ferro eme, carne rossa e cancro non sussiste.
La stessa IARC nel definire la carne rossa “probabilmente cancerogena” solamente sulla base di 14 studi di coorte, aveva già ammesso i limiti di questa associazione negli esseri umani: limiti che emergono anche dallo studio pubblicato nel 2018 sulla rivista “Food and Chemical Toxicology” nel caso specifico del ferro eme, su cui sono stati condotti studi in vitro, studi sugli animali e studi clinici per esplorarne i meccanismi di azione. Ciò che emerge da questa rivisitazione dei lavori è un problema metodologico mai messo in evidenza prima, e cioè la non congruenza fra ambiente, dosaggio e separazione del ferro eme o delle emine come se fossero principi attivi. In pratica gli autori dei lavori hanno utilizzato protocolli tossicologici come se ferro eme o emine fossero principi attivi “esogeni”, mentre in realtà sono componenti di una matrice molto più complessa quale è il cibo.
Dalla revisione è emerso che la maggior parte degli studi sugli animali e perfino gli studi clinici hanno utilizzato quantità di carne rossa che hanno superato di gran lunga quelle raccomandate da tutte le linee guida nutrizionali e quindi con livelli di esposizione al ferro eme esagerate e non realistiche. Questo significava non solo assunzione di quantitativi di carne rossa fino a 3 ordini di grandezza superiori rispetto alle dosi raccomandate, ma combinate anche con diete povere di calcio e ad alto contenuto di grassi “cattivi”, condizioni progettate appositamente per ricreare in laboratorio le situazioni ottimali e necessarie alla produzione dei dannosi radicali liberi ad alto potere ossidativo, ma non rispondenti alla realtà di una dieta sana ed equilibrata.
Anche gli studi in vitro hanno sovradosato il ferro eme e per di più sono stati condotti in ambiente aerobico, mentre ai ratti utilizzati negli studi in vivo sono state somministrate direttamente emina o emoglobina addirittura in dosi 11-360.724 volte quelle contenute nelle raccomandazioni nutrizionali di carne rossa, rispondenti a diete con 1.5-3.5 kg di carne, quantitativi lontani anni luce da quelli realistici davvero assunti in una dieta normale. E infatti, riportando i livelli ad una condizione normale, insieme all’ingerimento alimentare di calcio e olio d’oliva, e quindi di composti protettivi antiossidanti, le formazioni neoplastiche e gli effetti di citotossicità sono stati completamente annullati, confermando l’importanza di considerare la dieta nella sua completezza come lo sarebbe nella realtà.
Ad aumentare i punti critici e le incoerenze metodologiche c’è anche un’altra considerazione che merita rilievo: i nitroso-composti che si generano dall’eccesso di ferro eme nella dieta non sono tutti uguali e non tutti hanno potere tumorigenico. In particolare è stato dimostrato che proprio quelli generati dopo l’ingestione di carne rossa nell’uomo non sono dannosi, perché consistono per l’83-86% di ferro nitrosilico e nitrosotioli, che non sono associati alla formazione di addotti del DNA cancerogeni, perché presentano una chimica molto diversa dalle altre specie di composti N-nitroso, scagionando ancora una volta la carne rossa.
Inoltre negli studi revisionati è emerso anche un ruolo attivo del microbiota intestinale nell’iperproliferazione delle cellule del colon indotta dal ferro eme, sollevando però dubbi per l’estrapolazione dei risultati nei roditori per gli esseri umani, considerando le profonde differenze intrinseche nel microbiota che rendono per questo poco corretto se non impossibile riportare direttamente gli effetti ottenuti nei ratti direttamente all’uomo. In conclusione, tutte le revisioni attuali delle metodologie utilizzate negli studi considerati dalla IARC, non hanno fornito prove sufficienti per confermare un legame meccanicistico tra l’assunzione di carne rossa come parte di un modello alimentare sano e il rischio di cancro del colon-retto, perché con livelli di carne rossa pertinenti e all’interno di una dieta reale, con i composti protettivi biologicamente attivi degli alimenti considerati nella loro completezza, l’espressione del rischio viene praticamente annullato.
Susanna Bramante
Agronomo e divulgatrice scientifica. Autrice e coautrice di 11 pubblicazioni
scientifiche e di numerosi articoli riguardanti l’alimentazione umana e gli
impatti della stessa sulla salute e sull’ambiente, nel 2010 ha conseguito il
titolo di DoctorEuropaeus e Ph. Doctor in Produzioni Animali, Sanità e Igiene
degli Alimenti nei Paesi a Clima Mediterraneo. Cura GenBioAgroNutrition, “un blog a sostegno dell’Agroalimentare
Italiano, della Dieta Mediterranea e della Ricerca Biomedica, contro la
disinformazione pseudoscientifica”, che aggiorna quotidianamente.