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FAQ: domande frequenti sul mondo delle carni

Che cos’è la Clessidra Ambientale?

Una corretta alimentazione dovrebbe prevedere un consumo equilibrato di tutti gli alimenti disponibili. Se si seguono i consigli di consumo suggeriti dal modello alimentare della dieta mediterranea, l’impatto medio settimanale della carne risulta allineato a quello di altri alimenti, per i quali gli impatti unitari sono minori ma le quantità consumate generalmente maggiori.

Questo è il concetto rappresentato dalla clessidra ambientale, ottenuta dalla moltiplicazione dell’impatto ambientale degli alimenti (per semplicità il Carbon Footprint) per le quantità settimanali suggerite dalle linee guida nutrizionali INRAN 2003, ora CRA-NUT. Secondo questa rappresentazione, mangiare carne in giusta quantità non comporta un aumento significativo dell’impatto ambientale di un individuo. Del resto, uno stile di vita sostenibile dovrebbe misurarsi anche con altre scelte quali ad esempio la mobilità, i consumi di energia, l’abbigliamento, le abitudini per il tempo libero.

Per maggiori informazioni sia sulla Clessidra Ambientale che sugli altri temi trattati nelle altre FAQ, consigliamo di scaricare il documento “La sostenibilità delle carni e dei salumi in Italia” .

La dieta mediterranea include il consumo di carne?

Sì. La Dieta Mediterranea è molto varia, e include quantità equilibrate di ogni tipo di alimento. In generale, quello che emerge dal modello mediterraneo è uno stile alimentare con un elevato consumo di verdura, legumi, frutta e frutta secca, olio d’oliva e cereali (di cui un 50% integrali), e un moderato consumo di pesce, carne, prodotti caseari (specialmente formaggio e yogurt) e dolci.

Anche la carne fa dunque parte della Dieta Mediterranea. In passato, infatti, oltre al pesce venivano consumati la cacciagione, i tanti animali da cortile (polli, tacchini, conigli, oche, ecc.) e i suini, la cui alimentazione era basata sull’utilizzazione dei sottoprodotti agricoli e sugli scarti alimentari umani. La macellazione veniva fatta direttamente dai proprietari degli animali che, se di grossa taglia (suini e bovini in particolare), rendevano necessaria la conservazione delle carni per poterle utilizzare in periodi successivi.

Questa necessità ha permesso di “dare origine a” numerosi salumi, che sono divenuti un vanto della nostra produzione alimentare oggi apprezzata in tutto il mondo. Basti pensare che sui 244 prodotti Dop e IGP italiani, 1/3 deriva da produzioni derivanti dall’allevamento e 37 fanno parte della categoria carni, come ad esempio bresaola, prosciutto, culatello, salumi, mortadelle, cotechino, pancette, coppa, lardo ecc.

Secondo la scienza biomedica moderna la dieta mediterranea rappresenta il miglior modo di nutrirsi ed è un vero e proprio stile di vita. Perché?

La comunità scientifica internazionale ha accettato il ruolo della Dieta Mediterranea nell’aumentare l’aspettativa di vita e migliorare la salute generale, e ha contribuito alla diffusione di questo modello dietetico come pilastro centrale dei programmi e delle politiche di salute pubblica in molti Paesi, dagli Stati Uniti all’Europa.

Ma la Dieta Mediterranea non è solo una dieta, rappresenta uno stile di vita. La “Fondazione Dieta Mediterranea” ha sviluppato un grafico della Piramide alimentare, che include le informazioni strettamente legate allo stile di vita mediterraneo, di ordine culturale e sociale, nonché l’importanza dell’esercizio fisico e della convivialità.

Nella Piramide si evidenzia l’importanza della vita mediterranea, compresi fattori non connessi all’uso di alimenti particolari. È un approccio globale: non un singolo alimento, non un singolo comportamento, ma uno stile di vita che prevede appunto attività fisica regolare, un riposo adeguato, la convivialità e prodotti diversi da consumare seguendone la stagionalità.

Perché è importante la presenza delle proteine animali in una dieta equilibrata? Che benefici apporta all’organismo il consumo di carne? Quanta carne è raccomandabile consumare?

Proprio come previsto dalla Dieta Mediterranea, è necessario seguire una dieta varia ed equilibrata per la salute e il benessere fisico. Questa “dieta” dovrà includere non solo la frutta e la verdura, ma anche un consumo moderato di carne, alimento in grado di apportare numerosi benefici all’organismo.

Un corretto consumo di carni, soprattutto di tagli magri della stessa, può essere benefico nelle diverse fasi della vita. Come quella di crescita, durante l’adolescenza, quando i ragazzi e ancor più le ragazze hanno un maggiore fabbisogno proteico e devono evitare il rischio di anemie da carenza di ferro.

Anche durante la gravidanza, uno dei momenti in cui l’aumentato fabbisogno di sostanze nutritive è massimo, l’assunzione di carne (in questo caso ben cotta) è molto importante. O ancora durante l’età pediatrica, altro periodo della vita in cui, essendo in continua crescita, i fabbisogni di proteine sono molto elevati, e queste vengono utilizzate dall’organismo per la costruzione dei tessuti. Durante la terza età, l’assunzione di proteine non può più essere sottovalutata.

Un apporto inadeguato di proteine in una persona anziana contribuisce infatti ad aumentare la fragilità cutanea, a ridurre le capacità di recupero dell’organismo e le funzioni immunitarie, causando difficoltà e prolungamento dei tempi di guarigione dalle malattie. Sempre accompagnata da abbondanti quantità di frutta e verdura, la giusta quantità di cibi di origine animale permette in ogni fase della vita di aumentare l’introito di vitamine del gruppo B, A e D e di sali minerali come il calcio, il ferro e lo iodio.

Paragonata ad un regime alimentare privo di carne, una dieta che include tagli magri della stessa contribuisce a una migliore assunzione di proteine, selenio, tiamina e vitamina B6, senza aumentare l’apporto di grassi totali e saturi.
Non solo, a differenza degli alimenti a base di grassi e carboidrati, ha un elevato effetto saziante. L’effetto anti-fame è dovuto al blocco della grelina, l’ormone che stimola la fame, provocato dalla digestione delle proteine.

Quali sono i vantaggi per la salute del modello alimentare mediterraneo?

Riduce il rischio di sindrome metabolica e patologie croniche, nonché il rischio cardiovascolare. Gli scienziati hanno confrontato il rischio di sviluppare malattie cardiache e altre patologie nelle popolazioni che hanno e non hanno adottato la Dieta Mediterranea.

Quest’ultima è legata a:

• aumento della longevità – ossia una ridotta possibilità di morte, a qualsiasi età – principalmente a causa delle ridotte possibilità di sviluppare, avere una recidiva di o morire di malattie cardiache o a causa del cancro. I risultati sono stati confermati nelle popolazioni di Stati Uniti e Regno Unito, con una riduzione del rischio di morte del 20% a tutte le età: riduzione del rischio di sviluppare il diabete 2, ipertensione o aumento di colesterolo nel sangue, ognuno dei quali è associato a malattie cardiache e vascolari;

• riduzione della possibilità di diventare obesi: la Dieta Mediterranea ha costituito la base per una riduzione equilibrata del peso; riduzione del rischio di sviluppare il morbo di Parkinson e il morbo di Alzheimer.

Mangiare carne è pericoloso per la salute dell’uomo?

Un consumo moderato di proteine animali non è pericoloso per la salute umana, anzi. Di contro, un eccessivo consumo di carni rosse o lavorate, superiore a 500 g alla settimana, è associato a un maggior rischio di sviluppare diabete, malattie cardiovascolari e tumori.

Secondo gli studi dell’Associazione Italiana Ricerca sul Cancro, “nessuna patologia è causata soltanto dal consumo di carne, e non vi è una relazione di causa ed effetto diretta e assoluta tra consumo di proteine animali e lo sviluppo di una data malattia. […]

Non sono ancora presenti studi che indichino una relazione convincente tra rischio di malattie e modesto consumo di proteine animali; anzi, in certi casi un apporto limitato di proteine animali ha effetti benefici, perché fornisce importanti micronutrienti”. Il valore di 500 grammi è comunque superiore a quanto suggerito nelle indicazioni nutrizionali relative al modello alimentare mediterraneo.

Se non c’è pericolo per la salute, perché la IARC (International Agency for Cancer Research, agenzia di ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha classificato le carni rosse e trasformate rispettivamente come probabilmente cancerogene e cancerogene per l’uomo?

La IARC nel 2015 ha anticipato la decisione di includere le carni trasformate nel Gruppo 1 (cancerogene) e le carni rosse nel Gruppo 2A (probabilmente cancerogene), sulla base sulla base di molti studi scientifici, i cui risultati erano noti da tempo.

“Negli studi esaminati, il consumo di carni trasformate è stato associato ad un piccolo aumento del rischio di cancro. In questi studi, il rischio generalmente aumenta con la quantità di carne consumata. L’analisi dei dati provenienti da 10 studi stima che ogni porzione da 50 g di carne trasformata, consumata ogni giorno, aumenta il rischio di cancro del colon-retto di circa il 18%.

Il rischio di cancro correlato al consumo di carne rossa è più difficile da stimare, perché la prova che la carne rossa provochi il cancro non è così forte. Tuttavia, se l’associazione tra carne rossa e cancro colon rettale è stata dimostrata essere causale, i dati degli stessi studi suggeriscono che il rischio di tumore del colon-retto potrebbe aumentare del 17% per ogni porzione di 100 g di carne rossa mangiata ogni giorno” (fonte: Q&A sito IARC).
Come si vede, la IARC si riferisce a porzioni giornaliere elevate, molto lontane dal consumo reale.

Cosa c’è nelle carni rosse e trasformate che aumenta il rischio?

Secondo gli studi IARC, i fattori di rischio delle carni sono dovuti a sostanze che possono essere proprie della carne (es. ferro EME), oppure sostanze originate durante la lavorazione o la cottura ad alta temperatura (es. composti nitrosi o ammine aromatiche).

Il suggerimento di limitare il consumo di carni rosse è quindi accompagnato da quello di evitare cotture a fiamma libera, come ad esempio il barbecue, e quello di aggiungere alimenti contenenti vitamina C, che non solo facilita l’assorbimento del ferro libero presente nella carne rossa, ma neutralizza quasi completamente i rischi legati a sostanze potenzialmente dannose.

La presenza di composti nitrosi o ammine aromatiche è ritenuta responsabile dell’attivazione di meccanismi cancerogeni quando il consumo di carni e salumi è molto elevato: per le carni rosse si parla di oltre 100 g al giorno, mentre per le carni trasformate di 50 g al giorno, valori molto distanti dai consumi effettivi italiani.

Per completezza è bene osservare che questo fenomeno non è tipico della carne, ma del sistema di cottura: la stessa cautela dovrebbe infatti essere usata per altri alimenti, quali ad esempio le verdure grigliate o la pizza cotta nel forno a legna.

Si può evitare di aggiungere nitrati e nitriti nei salumi?

I nitrati ed i nitriti vengono utilizzati, nelle quantità autorizzate dalle autorità sanitarie, per evitare lo sviluppo delle spore di Clostridium botulino che sviluppano una tossina molto pericolosa, addirittura mortale, per l’uomo.

In realtà è da ricordare come queste sostanze siano usate solo quando è strettamente necessario: nei prodotti a lunga stagionatura, tipici della tradizione gastronomica italiana, non sono presenti perché è stato scoperto che è il processo stesso di conservazione che è sufficiente ad eliminare ogni rischio.

In alcuni prodotti, ad esempio i prosciutti DOP, l’utilizzo di queste sostanze è addirittura vietato. Per i prodotti in cui si usano, le analisi nutrizionali del 2011, rispetto a quelle del 1993, hanno mostrato cali tra il 50 e il 90% di nitrati (presenti comunque in poche parti per milione).

I metodi di cottura della carne possono cambiare il rischio?

I metodi di cottura ad alta temperatura possono generare composti che contribuirebbero al rischio cancerogeno, ma il loro ruolo non è ancora pienamente compreso.

In particolare, la cottura a temperature elevate o con il cibo in diretto contatto con una fiamma o superfici calde, come il barbecue o la frittura, produce diversi tipi di sostanze chimiche cancerogene, come gli idrocarburi policiclici aromatici e le ammine aromatiche eterocicliche.

È però da osservare come questo fenomeno sia indipendente dal tipo di cibo e riguardi anche la carbonizzazione di altri alimenti come pesce, verdure, pizza, ecc.

Dato che il fumo di tabacco, l’amianto, l’alcool sono classificati come cancerogeni per l’uomo, vuol dire che le carni trasformate sono cancerogene come queste sostanze?

No. Anche se comprese nella stessa categoria del fumo di tabacco o dell’amianto come causa di cancro, questo non significa che siano tutte ugualmente pericolose. Le classificazioni IARC descrivono la forza dell’evidenza scientifica di un agente di essere una causa di cancro, piuttosto che valutare il suo livello di rischio. In altre parole, è importante sapere non solo in che lista si trova una certa sostanza, ma quali sono i dosaggi e le durate di esposizione oltre le quali il rischio diventa reale e non solo teorico.

Come spiega la IARC, “secondo le più recenti stime del Global Burden of Disease Project, un’organizzazione di ricerca accademica indipendente, circa 34.000 decessi per cancro ogni anno in tutto il mondo sono attribuibili a diete ricche di carni trasformate. Mangiare carne rossa non è ancora stato definito come causa di cancro. Tuttavia, se le associazioni riportate sono state dimostrate essere causali, il Global Burden of Disease Project ha stimato che le diete ricche di carne rossa potrebbero essere responsabili di 50.000 decessi per cancro ogni anno in tutto il mondo.

Questi numeri contrastano con circa 1 milione di morti per cancro ogni anno a livello mondiale a causa del fumo di tabacco, 600.000 all’anno a causa di consumo di alcool e più di 200.000 l’anno a causa dell’inquinamento atmosferico” (Fonte: Q&A sito IARC).

Le conclusioni della IARC sono definitive?

No, perché la materia è altamente controversa: la decisione di inserire le carni tra le sostanze pericolose non è stata presa all’unanimità ed esiste un recente autorevole studio (Oostindjier et al., 2014) le cui conclusioni hanno rivelato che le relazioni tra consumo di carni trasformate e rosse fresche e il tumore al colon-retto sono inconsistenti: occorreranno pertanto molte più evidenze scientifiche.

Inoltre, come evidenziato dal grafico precedente il livello di rischio riferito al consumo di carni rosse e trasformate è molto più basso, rispetto a quello legato ad altri fattori di rischio quali fumo, alcool e inquinamento. Infine, lo studio in questione non considera altri alimenti: molti tipi di vegetali freschi (carote, spinaci, cavoli, rucola, ecc.) sono fonti significative sia di nitrati e nitriti che di idrocarburi policiclici aromatici.

E’ vero che per produrre un chilogrammo di carne si consumano svariati chilogrammi di cibo vegetale potenzialmente destinato all’alimentazione umana?

Il mangime destinato agli animali da allevamento è composto prevalentemente da una miscela che include ma anche cereali (mais, grano, orzo) e legumi (come la soia) secondo una dieta che viene stabilita sulla base delle necessità legate alla tipologia e allo scopo dell’allevamento.

Non bisogna dimenticare che per l’allevamento bovino si utilizza l’80% delle piante (gambo), che non è edibile per l’uomo. Le razioni destinate agli animali possono quindi contenere cereali potenzialmente destinati all’uomo, ma è anche vero che molto spesso l’apporto proteico e di fibre avviene attraverso colture che non potrebbero essere destinate al consumo umano (l’insilato di mais, il pisello proteico, l’erba da pascolo, l’erba medica, i trifogli o il fieno, ad esempio).

Allo stesso tempo ci si sta muovendo sempre più verso la diminuzione, per quanto possibile, dell’utilizzo di proteine commestibili per l’uomo come alimento zootecnico. Per raggiungere questi obiettivi gli allevamenti e la mangimistica lavorano a stretto contatto, in modo da ottimizzare sempre più l’utilizzo di residui colturali e sottoprodotti, tentando nuove combinazioni che mantengano ugualmente alta l’efficienza di conversione.

È vero che la carne impatta sull’ambiente più di altri alimenti per essere prodotta?

La carne è generalmente collocata tra gli alimenti con il più alto impatto ambientale per chilogrammo. Ciò è dovuto al fatto che la sua filiera di produzione è piuttosto articolata. A differenza dei prodotti di origine agricola, infatti, per produrre carne è necessario un “doppio passaggio”: prima si producono gli alimenti per gli animali, poi si avvia il processo di conversione proteica durante l’allevamento degli stessi.

Un secondo aspetto, particolarmente valido per la filiera del bovino adulto, è rappresentato dagli impatti della fattrice (la mamma dei vitelli), che viene allevata unicamente allo scopo di partorirli con un ritmo medio di 1 all’anno. Ultimo aspetto è quello legato alla gestione delle deiezioni e alle fermentazioni enteriche, che comportano un impatto significativo, soprattutto nei confronti dell’effetto serra. Questi aspetti sono innegabili e fanno parte delle caratteristiche naturali delle filiere.

Come diceva Paracelso, però, è la dose che fa il veleno. In altre parole non ha molto senso confrontare (per giudicarli) l’impatto di alimenti differenti, soprattutto tenendo conto del fatto che in molti casi le filiere di produzione sono integrate e dipendono le une dalle altre. Per questo motivo il modello proposto dalla Clessidra Ambientale vuole valorizzare il consumo di tutti gli alimenti in modo equilibrato e coerente al modello mediterraneo: in questo modo l’impatto settimanale dovuto al consumo di carne è allineato a quello degli alimenti per i quali gli impatti unitari sono minori ma le quantità consumate sono maggiori.

Secondo alcuni studi l’allevamento in stalla avrebbe una grande impronta idrica, molto più elevata rispetto a quello al pascolo. E’ corretto?

I dati che circolano in merito all’impronta idrica della carne (15.000 litri per kg di carne bovina) sono quelli pubblicati dal Water Footprint Network (www.waterfootprint.org), che prevedono la somma di tre contributi differenti: l’acqua blu, quella prelevata dalla falda o dai corpi idrici superficiali, l’acqua verde, quella piovana evo-traspirata dal terreno durante la crescita delle colture, e l’acqua grigia, il volume d’acqua necessario a diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione.

Questo metodo di contabilizzazione presenta qualche criticità, soprattutto quando si guarda soltanto la somma dei dati: poiché il contributo “verde” è generalmente quello più alto, avviene che gli allevamenti al pascolo sono quelli caratterizzati da una impronta idrica più alta.

Una seconda criticità sostanziale è che, prendendo in esame il valore complessivo e ignorando il contesto locale in cui avvengono la produzione e l’allevamento, non si mette in relazione il prelievo di acqua con la disponibilità di quel territorio.

Gli allevamenti in stalla sono accusati di essere una causa di inquinamento idrico. E’ davvero così?

Le deiezioni animali sono molto ricche di azoto e un loro spandimento incontrollato sui suoli potrebbe in effetti generare dei problemi ambientali alle falde. La direttiva nitrati pone però un limite molto chiaro a questo problema, definendo delle soglie massime di inquinante che il terreno può ricevere a seconda che ci si trovi o meno in presenza di aree vulnerabili.

Per ovviare a questo problema, i liquami reflui zootecnici e gli scarti di macellazione vengono sempre più spesso utilizzati per la produzione di biogas e, quindi, di energia termica ed elettrica. Questo avviene grazie a impianti di digestione anaerobica di biomasse che sono in grado di trattare, oltre ai fanghi prodotti dagli impianti di depurazione, i reflui zootecnici e gli scarti di macellazione quali ad esempio il rumine e il sangue.

Il biogas prodotto viene normalmente impiegato nelle stesse aziende attraverso impianti di cogenerazione finalizzati alla produzione combinata di energia elettrica e termica con due vantaggi: da un lato la produzione di energia senza l’utilizzo di combustibili fossili, dall’altro la riduzione degli scarti da trattare. Il risultato della digestione anaerobica (il digestato) è un prodotto idoneo all’utilizzo in agricoltura (fertilizzante organico per produzioni biologiche).

Servono davvero 15mila litri di acqua per produrre un chilo di carne di manzo?

Quello secondo cui ci vogliono 15mila litri d’acqua per produrre un chilo di carne manzo è uno dei luoghi comuni che ha avuto maggiore presa a livello mediatico, quando si parla di carne. Un dato eclatante, che viene ormai dato per scontato essere credibile. Ma è davvero così? In realtà no: nel calcolo dell’impronta idrica della carne ci sono molti aspetti che vengono inutilmente considerati. Altri, invece, vengono ignorati con troppa superficialità. In altre parole, l’impronta idrica, o Water footprint, di cui sono già state fatte diverse revisioni critiche, presenta non poche lacune.

Partiamo dalla prima: non quantifica l’impatto ambientale associato all’utilizzo d’acqua, ma soltanto il volume di acqua utilizzato. Non solo, esso ignora del tutto il contesto specifico in cui avvengono la produzione e l’allevamento (che si sono sviluppati laddove c’è una maggiore disponibilità di acqua). In tutte le aree a maggior densità zootecnica, secondo i dati raccolti a livello globale attraverso il Water Stress Index, parametro che esprime il rapporto tra acqua utilizzata e acqua disponibile tenendo conto della variabilità mensile e annuale delle precipitazioni, la presenza del bestiame non ha mai comportato un impoverimento delle riserve idriche sotterranee.

Con il Water footprint si calcola di solito la quantità di acqua che viene utilizzata nei processi produttivi. È la cosiddetta “acqua virtuale” che, quando si parla di carne, include anche quella usata per produrre i mangimi, per l’allevamento del bestiame e nella fase di macellazione. Questo metodo di valutazione dei consumi di acqua nel settore zootecnico calcola l’impronta idrica di un prodotto sommando l’acqua blu, quella prelevata dalla falda o dai corpi idrici superficiali, l’acqua verde, quella piovana evo-traspirata dal terreno durante la crescita delle colture, e l’acqua grigia, il volume d’acqua necessario a diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione. I punti deboli e le diverse incongruenze presentati dal calcolo dell’impronta idrica partono dal fatto che questa non distingue i tre tipi diversi di acqua, sommandoli come se avessero lo stesso impatto sulla disponibilità idrica, il che è un approccio sostanzialmente scorretto.

Detto questo, è utile sottolineare che il Water footprint della produzione di carne bovina in Italia si attesta a 11.500 litri di acqua per produrre 1 kg di carne (il 25% in meno rispetto ai 15.415 della media mondiale), e solo il 13% (1.495 l) di questa viene effettivamente “consumato”. Il restante 87%, è quindi costituita da acqua verde, ovvero l’acqua piovana impiegata nella coltivazione delle materie prime per l’alimentazione degli animali. Le ragioni del minore volume di acqua impiegata nelle produzioni italiane, sono da ricercarsi nel sistema zootecnico nazionale che, essendo basato sulla combinazione di allevamenti estensivi ed intensivi, permette di ottenere una buona efficienza in termini di risorse impiegate per kg di carne prodotta. Oltre a questo è da osservare come anche la produzione bovina italiana avvenga prevalentemente nelle zone più vocate e con la maggiore disponibilità di acqua (ad esempio lungo il fiume Po e dei suoi affluenti).

A livello complessivo l’intero settore delle carni (bovino, avicolo e suino) impiega per l’80-90% risorse idriche che fanno parte del naturale ciclo dell’acqua e che vengono restituite all’ambiente come l’acqua piovana; solo il 10-20% dell’acqua necessaria per produrre 1 kg di carne viene quindi effettivamente consumata.

È vero che le diete con alto contenuto di carne producono più gas serra rispetto a quelle vegetariane?

È indubbio che la carne sia l’alimento che, per chilogrammo, presenta maggiori impatti rispetto agli alimenti di origine vegetale, quindi un piatto a base di proteine animali impatta di più rispetto ad uno vegetariano. Il giudizio però non dovrebbe essere fatto su un singolo piatto, ma sul ciclo di vita del prodotto, che è molto diverso tra vegetali e animali (bovino: 18-14 mesi, pollo: 1-2 mesi, maiale: 9-11 mesi, insalata: 1 mese, pomodori: 2 mesi).

In una dieta equilibrata che prevede il consumo di tutti gli alimenti, un consumo moderato di carne non incrementa in modo sostanziale gli impatti ambientali in un periodo di tempo di riferimento quale, ad esempio, una settimana.

Chi non mangia carne salverà il pianeta?

Poiché la correlazione tra le abitudini alimentari e gli impatti ambientali è ormai dimostrata da molte pubblicazioni scientifiche e divulgative, la domanda che ci si pone è se basta controllare e ridurre i propri impatti alimentari, per ritenersi “sostenibili”. In effetti, sarebbe interessante estendere il concetto della sostenibilità all’intero stile di vita, del quale l’alimentazione rappresenta una variabile importante ma non unica.

Sempre più frequentemente, si sente dire che diventare vegetariani sia l’unico modo per salvare il pianeta. Spesso, infatti, chi sceglie di non mangiare carne lo fa per motivi ambientali, ancor prima che per motivi etici. Eppure, mangiare carne in giusta quantità o non mangiarne affatto non modifica in maniera sostanziale il proprio impatto ambientale complessivo. Altri fattori sono molto rilevanti sull’impatto ambientale complessivo di un individuo.

La scelta di una automobile, ad esempio, può portare ad importanti ricadute ambientali: la differenza di impatto tra un’auto con grande potenza e una con potenza media può essere superiore alle 500 tonnellate di CO2 all’anno, un valore molto superiore al potenziale beneficio associato alle scelte alimentari. Da questi dati risulta evidente come “essere sostenibili” non possa essere ricondotto a una sola scelta, ma dovrebbe essere il risultato di un comportamento omogeneo e attento a molti risvolti.

Una ulteriore osservazione è utile per comprendere come alcuni dei casi presentati siano relativamente semplici da mettere in atto, in quanto basati su una scelta immediata (come appunto l’acquisto dell’automobile), mentre altri siano più complessi in quanto vincolati a fattori esterni o ad abitudini e comportamenti che, come le scelte alimentari, richiedono tempi diversi.

Bisognerebbe adottare quindi uno stile di vita sostenibile a 360° attraverso semplici azioni, come cercare di ridurre i consumi nella propria abitazione (quindi non eccedendo con il riscaldamento invernale o il condizionamento estivo), scegliendo indumenti idonei alla stagione.

I prodotti a chilometro zero sono i più sostenibili?

Il tema della distribuzione del cibo è interessante sia per i risvolti sociali legati alla tutela di comunità e tradizioni locali che per quelli ambientali. Si sta infatti diffondendo il concetto del cibo a chilometro zero, al quale viene associata l’equazione “prodotto a chilometro zero = prodotto a basso impatto ambientale”.

Anche in questo caso una visione semplicistica del problema può portare a interpretazioni non del tutto corrette. Soffermandosi unicamente sugli aspetti ambientali, ancora una volta considerando la Carbon Footprint in modo esemplificativo, si può facilmente dimostrare come l’impatto della distribuzione dei cibi sia rilevante solo in pochissimi casi. Infatti, se è vero che l’utilizzo di un camion comporta un’elevata emissione di CO2 per chilometro percorso, è anche vero che la quantità di merce trasportata è alta e quindi l’impatto per chilogrammo di prodotto è piuttosto limitato.

Data la bassa rilevanza dei trasporti, quindi, non sempre è vero che le produzioni a chilometro zero abbiano un minor impatto ambientale rispetto alle produzioni tradizionali. Potrebbe infatti accadere che un sistema “lontano” sia più efficiente da un punto di vista ambientale rispetto a uno “vicino”, e quindi gli impatti dovuti ai trasporti siano ampiamente compensati dai minori oneri di produzione.

È il caso per esempio di alcune materie prime agricole che, quando sono coltivate in aree vocate alla produzione, rendono molto efficiente la coltivazione: le fragole in Svezia richiederebbero dei costi energetici per le serre che non le renderebbero necessariamente meno impattanti rispetto a quelle coltivate in Romagna e trasportate via camion. Questo non vuol dire che le produzioni locali non siano da preferire, è però importante osservare come questa scelta sia spesso da associare ad altri (importanti) vantaggi, quali quelli culturali, economici e di valorizzazione del territorio.

Si può salvare il pianeta diventando vegetariani?

Per darsi una risposta, basta provare a usare il calcolatore ufficiale del Global Footprint Network, che permette di calcolare qual è appunto la propria impronta ecologica. Provate a fare il test due volte, lasciando invariati tutti i dati tranne quello del consumo di carne. Mettendo e togliendo la carne nei due diversi test, si noterà che i risultati finali non avranno differenze significative. Per una persona con uno stile di vita come quello medio italiano, gli estremi “reali” ottenuti variano da un minimo di 2.1 «pianeti», necessari a sostenere il proprio stile e le proprie scelte di vita (il doppio di quello che abbiamo a disposizione) ad un massimo di 4.2 «pianeti». Gli scostamenti massimi ottenuti tra i valori “reali” e i valori del test rifatto “con e senza carne” risultano al massimo di 0.1 «pianeti».

È vero che negli allevamenti si fa un uso indiscriminato di antibiotici?

No. L’impiego di antibiotici negli allevamenti è subordinato al rispetto di regole ben precise. Non solo il trattamento a scopo preventivo è vietato, ma si possono utilizzare farmaci soltanto in presenza di malattie e dopo prescrizione medica.

I farmaci permessi sono quelli autorizzati dalle autorità sanitarie e il loro impiego deve essere limitato nel tempo. Per ridurre al minimo il rischio per le persone, è obbligatorio il rispetto del “periodo di sospensione”, ovvero l’attesa di un certo numero di giorni dopo la sospensione del trattamento prima della macellazione.

In ogni caso, il problema dell’antibiotico-resistenza (cioè la comparsa di batteri che abbiano sviluppato resistenza ad alcuni antibiotici) è molto serio e importante, al punto che l’OMS ha richiamato a un approccio complessivo che riguardi la zootecnia, ma anche l’uso non idoneo di antibiotici in medicina umana.

Nelle carni sono presenti ormoni?

In Europa l’uso di sostanze ad attività ormonale è vietato nel settore zootecnico (filiere bovina, avicola e suina) dal 1981. Il loro impiego, peraltro, oltre ad essere vietato dalle normative sarebbe inutile, se non addirittura controproducente.

Gli Ogm sono pericolosi?

Nel dibattito sulla sicurezza dei prodotti alimentari, uno dei temi più controversi riguarda sicuramente gli Organismi Geneticamente Modificati (OGM), spesso accusati di rappresentare un pericolo per la salute umana e dell’ambiente. La questione è delicata, perché mette in gioco differenti punti di vista.

Ma cos’è un OGM? Letteralmente, il termine “geneticamente modificato” fa riferimento a qualsiasi “organismo il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale”. In verità, il miglioramento o la modifica delle caratteristiche genetiche di un animale o di una specie vegetale sono conosciute da sempre.

Per questo è bene chiarire che le tecniche OGM “sotto processo” sono quelle che si sono sviluppate negli ultimi 40 anni, e che permettono di modificare “in laboratorio” alcune caratteristiche della specie vivente: per esempio, è possibile incrementare la resistenza di una pianta a pesticidi o a determinati parassiti, migliorarne il profilo nutrizionale o la capacità di adattarsi a condizioni climatiche avverse (aumentandone per esempio la resistenza in caso di siccità). Le principali coltivazioni OGM nel mondo sono la soia, il mais e il cotone.

Nel documento “20 domande sugli Organismi Geneticamente Modificati”, l’OMS ha affermato che non esistono prove del fatto che gli OGM attualmente in commercio rappresentino un rischio per la salute. Allo stesso modo, non sono stati rilevati effetti sulla salute derivanti dal consumo di alimenti OGM nei Paesi in cui sono già stati approvati.
Ciononostante, il loro utilizzo in ambito agroalimentare è osteggiato da una parte considerevole dell’opinione pubblica, per motivi prevalentemente inerenti a tematiche ambientali ed etiche che poco hanno a che fare con la sicurezza degli alimenti in sé.

E’ vero che le carni che si trovano al supermercato sono tutte di provenienza estera?

La produzione italiana di carne bovina non è sufficiente a soddisfare la domanda interna: attualmente circa il 40% dei vitelli vivi e delle carni viene importata da altri Paesi europei.

I vitelli vivi delle razze da carne, che sono caratterizzati da un profilo genetico di alto livello, sono allevati in Italia integrandosi perfettamente con l’ampia disponibilità di mais di qualità della pianura Padana e le possibilità crescenti di pascoli e foraggi per la ridotta produzione di grano duro, soprattutto nel centro-sud.

Attraverso le tecniche di allevamento perfezionate negli anni e in particolare le best practice nell’alimentazione e nel rispetto del benessere animale, la filiera italiana garantisce la qualità e la sicurezza delle carni “allevate in Italia”. Grazie al sistema di tracciabilità, sull’etichetta finale del prodotto è sempre possibile verificare il Paese di origine dell’animale.

Che differenza c’è tra dieta vegetariana e dieta mediterranea?

Spesso si tende a pensare che la dieta mediterranea consista in un regime alimentare che preveda solamente pasta, alimenti a base di carboidrati, frutta e verdura. Non è così. La dieta mediterranea é molto variegata, e include quantità equilibrate di ogni tipo di alimento. Il valore nutrizionale della dieta mediterranea venne dimostrato negli anni ‘70 dallo “Studio dei sette Paesi”, quando mettendo a confronto le diete adottate da diverse popolazioni si riuscì a dimostrare l’associazione tra le abitudini alimentari e il rischio d’insorgenza di malattie croniche, con particolare riferimento a quelle cardiovascolari. In generale, quello che emerge dal modello mediterraneo è uno stile alimentare con un elevato consumo di verdura, legumi, frutta e frutta secca, olio d’oliva e cereali (di cui un 50% integrali), e un moderato consumo di pesce, prodotti caseari (specialmente formaggio e yogurt), carne e dolci.

La carne fa dunque parte anche della dieta mediterranea. In passato, infatti, oltre al pesce venivano consumati la cacciagione, i tanti animali da cortile (polli, tacchini, conigli, oche, ecc.) e i suini, la cui alimentazione era basata sull’utilizzazione dei sottoprodotti agricoli e sugli scarti alimentari umani. La macellazione veniva fatta direttamente dai proprietari degli animali, che se di grossa taglia (suini e bovini in particolare) rendevano necessaria la conservazione delle carni per poterle utilizzare in periodi successivi. Questa necessità ha permesso di “creare” numerosi salumi, che sono divenuti un vanto della nostra produzione alimentare, oggi apprezzata in tutto il mondo. Basti pensare che sui 244 prodotti Dop e IGP italiani, 1/3 deriva da produzioni  derivanti dall’allevamento e 40  fanno parte della categoria carni.

Negli allevamenti gli animali vengono davvero maltrattati come mostrato da alcune trasmissioni televisive?

Il rispetto del benessere animale nelle fasi di allevamento, trasporto e macellazione ha assunto grande rilevanza negli ultimi anni, nell’Unione europea così come nei Paesi che esportano carne in Europa, tenuti ad adeguarsi a standard equivalenti a quelli previsti per gli Stati dell’Ue.

I motivi sono molteplici, ma oltre all’indubbia valenza etica e quindi all’attenzione da parte dell’opinione pubblica e degli organi di controllo, vi è anche una ragione puramente economica: eventuali fattori di stress e cattive condizioni di vita non solo generano condizioni di inutile sofferenza all’animale, ma ma anche scarsa qualità delle carni.

L’Unione europea è particolarmente all’avanguardia nell’ambito del benessere degli animali da reddito: la Commissione si sta infatti impegnando molto per incrementare il livello di benessere animale negli Stati membri, con un investimento continuo nel perfezionamento degli standard normativi. Uno sforzo questo che porta l’Europa a investire mediamente 70 milioni di euro all’anno in azioni finalizzate alla sola tutela del benessere animale.

Nell’Unione europea sono proibiti tutti quei metodi di allevamento che provocano sofferenze o lesioni ai capi di bestiame, e si impone che gli animali vengano controllati giornalmente e, nel caso, curati. Non solo, secondo la legislazione europea deve essere garantita libertà di movimento a tutti gli animali, mentre le attrezzature per la somministrazione di mangimi e acqua devono essere concepite, costruite e installate in modo da ridurre al minimo le possibilità di contaminazione degli alimenti o dell’acqua, e le conseguenze negative derivanti da rivalità fra gli animali.

Quali altri prodotti si ottengono dagli allevamenti, oltre la carne?

La produzione di carne rappresenta solo una parte di ciò che si ottiene dagli animali da allevamento. Borse, scarpe, dispositivi medici e valvole cardiache; o ancora saponette, fertilizzanti, caglio naturale e biogas: sono solo alcuni esempi dell’enorme quantità di prodotti e sottoprodotti che si ottengono dal settore zootecnico. La quantità di carne che si ottiene da un animale da destinare al consumo alimentare umano varia a seconda del tipo di animale. Nel caso dei bovini, ad esempio, è di circa il 33-35%, mentre per i suini la percentuale diminuisce fino al 18%. Ma visto che degli animali non si butta via niente, a parte quei residui considerati a rischio di veicolare agenti infettivi, smaltiti in appositi impianti, nei secoli si sono trovati moltissimi modi per valorizzare ciò che si ricava dagli allevamenti.

La pelle bovina e ovina, giusto per fare qualche esempio vicino a tutti, è utilizzata per beni durevoli quali pellami e cuoio, che servono a loro volta per produrre scarpe, borsette, cinture o per ricoprire i divani e i sedili delle auto. Il grasso bovino e quello suino, invece, vengono utilizzati nell’industria cosmetica per fare il sapone. Quantità più piccole, ma di grande importanza, vengono utilizzate nel campo della medicina. I bovini e i suini forniscono il tessuto pericardico impiegato per la preparazione di dispositivi medici quali le valvole cardiache, mentre ossa e cotenne sono molto utili in ambito farmaceutico per l’incapsulazione dei farmaci. Il caglio naturale (l’unico coaugulante permesso per la produzione di formaggi DOP quali il Grana Padano e il Parmigiano  Reggiano) viene prodotto dall’industria casearia grazie all’abomaso dei bovini, l’ultima delle quattro cavità di cui è composto lo stomaco dei ruminanti. Anche i polli forniscono importanti prodotti oltre alla loro carne. Come il grasso, utilizzato per la produzione di mangimi e, in quantità sempre maggiori, per la produzione di biodiesel. Tanto che, nel 2011, dopo avere incentivato una sperimentazione per valutare l’utilizzo di grasso di pollo (e bovino) nella produzione di un biocarburante per il funzionamento degli aerei, la Nasa ha dimostrato che questo permette di ridurre le sostanze inquinanti rispetto ai carburanti tradizionali. Ma questi, appunto, sono solo alcuni delle diverse migliaia di esempi disponibili.

Che fine fanno i reflui zootecnici e gli scarti di macellazione?

I liquami reflui zootecnici e gli scarti di macellazione vengono sempre più spesso utilizzati per la produzione di biogas e, quindi, di energia termica ed elettrica. Le aziende agricole più avanzate, sfruttano infatti i reflui zootecnici per produrre più o meno importanti quantità di KWh elettrici e termici. Tutto viene riutilizzato, compreso il digestato solido. Ciò avviene grazie ad impianti di digestione anaerobica di biomasse, ossia impianti in cui si realizza appunto la co-digestione anaerobica di fanghi di depurazione, rumine e sangue. Il biogas prodotto fa funzionare un gruppo di cogenerazione costituito da un motore endotermico ad altissima efficienza di trasformazione.

In particolare l’energia termica viene interamente utilizzata per gli stessi digestori (che nelle varianti più efficienti lavorano a una temperatura costante di 40°) e per la produzione di acqua calda nello stabilimento da cui provengono i fanghi. Non solo. Essi sono utilizzati anche in una macchina disidratatrice, che in questo modo tratta il digestato solido a costo termico nullo e rende il prodotto finale idoneo all’utilizzo in agricoltura. In questo modo, in sostanza, si riducono di molto i materiali destinati allo smaltimento, attraverso l’implementazione di un processo virtuoso che porta al loro reimpiego. In termini ambientali, questo tipo di progetti valgono generalmente alcune migliaia di tonnellate equivalenti di petrolio e di CO2 rilasciata in atmosfera evitate ogni anno.

È importante precisare che le aziende zootecniche sfruttano questa tecnologia al solo fine di recuperare i propri scarti di lavorazione ed aumentare l’efficienza energetica dei propri stabilimenti. Non vengono quindi utilizzate altre tipologie di biomasse, quali ad esempio le farine di cereali, in conflitto  con il settore alimentare o mangimistico. L’uso a fini energetici di matrici alimentari potrebbe infatti determinare difficoltà di approvvigionamento nelle filiere principali e distorsioni di mercato.

Qual è il valore economico degli allevamenti in Italia?

Il settore economico delle carni genera in Italia un valore economico dell’ordine dei 30 miliardi di euro all’anno, rispetto ai circa 180 dell’intero settore alimentare ed ai 1.500 del PIL nazionale. Le tre filiere principali (avicolo, bovino e suino) generano un valore circa equivalente. Le differenze si trovano nell’analisi della bilancia commerciale: la filiera bovina importa il 20% circa del fabbisogno complessivo, la filiera avicola è pressoché neutra, la filiera dei salumi è caratterizzata soprattutto da esportazioni di prodotti finiti.

In un Paese che, come l’Italia, risente molto degli effetti della crisi globale, il ruolo economico della produzione di carne e di prodotti lattiero caseari da una parte costituisce la prima voce fra le principali produzioni agricole italiane, dall’altra riveste un ruolo importante in varie economie locali, che contribuiscono in modo non indifferente al totale nazionale. La pratica dell’allevamento rappresenta un’importante fonte di reddito anche nel resto del mondo. Secondo la FAO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura), nel mondo “il bestiame è fondamentale per il sostentamento di circa un miliardo di persone povere”, e dà lavoro a circa 1,3 miliardi di individui.

Quali sono i benefici di un corretto consumo di carne?

La carne, se assunta in giuste quantità, può avere effetti positivi per la nostra salute e il nostro benessere. Non è infatti un caso se, da sempre, questo importantissimo alimento è considerato una fonte di nutrienti essenziali per una crescita e uno sviluppo ottimali. In effetti un corretto consumo di carni, e soprattutto di tagli magri, può essere benefico nelle diverse fasi della vita. Come quella di crescita, durante l’adolescenza, quando i ragazzi e ancor più le ragazze hanno un maggiore fabbisogno proteico e devono evitare il rischio di anemie da carenza di ferro. Anche durante la gravidanza, uno dei momenti in cui l’aumentato fabbisogno di sostanze nutritive è massimo, l’assunzione di carne (in questo caso ben cotta) è molto importante. Così come durante l’età pediatrica, altro periodo della vita in cui i fabbisogni di proteine sono molto elevati, dato che si è in continua crescita e che queste vengono utilizzate dall’organismo per la costruzione dei tessuti. Anche durante la terza età l’assunzione di proteine non può più essere sottovalutata. Un apporto inadeguato di proteine in una persona anziana contribuisce infatti ad aumentare la fragilità cutanea, a ridurre le capacità di recupero dell’organismo e le funzioni immunitarie, causando difficoltà e prolungamento dei tempi di guarigione dalle malattie.

Sempre accompagnata da abbondanti quantità di frutta e verdura, la giusta quantità di cibi di origine animale permette in ogni fase della vita di aumentare l’introito di vitamine del gruppo B, C e D e di sali minerali come il calcio, il ferro e lo iodio. Paragonata ad un regime alimentare privo di carne, una dieta che include tagli magri della stessa contribuisce a una migliore assunzione di proteine, selenio, tiamina e vitamina B6, senza aumentare l’apporto di grassi totali e saturi. Non solo, a differenza di alimenti a base di grassi e carboidrati, ha un elevato effetto saziante. L’effetto anti-fame è dovuto al blocco della grelina, l’ormone che stimola la fame, provocato dalla digestione delle proteine.

Sono molti gli sprechi nella filiera della carne?

Tutte le fasi di ogni filiera alimentare, purtroppo, generano scarti. Quella della carne, anche per l’enorme quantità di destinazioni che hanno i sottoprodotti della carne stessa e il riutilizzo di liquami reflui zootecnici e scarti di macellazione per la produzione di energia, è in questo senso la più virtuosa. La produzione e il consumo di carne, infatti, generano una quantità di scarti (cibo commestibile “perso” nella filiera produttiva) e rifiuti (cibo buttato una volta immesso sul mercato) più che dimezzata rispetto a frutta e verdura, e pari quasi alla metà dei rifiuti prodotti dalla filiera dei cereali. Scarti che, nonostante gli sforzi di ridurre l’impatto ambientale di questo settore, sono dovuti prevalentemente alla fase di consumo finale.

I prodotti alimentari più sprecati, in effetti, sono quelli di origine vegetale: quelli che, non a caso, hanno anche un prezzo più contenuto (massimo 2 euro al kg). Al contrario, ci si guarda generalmente bene dallo sprecare i prodotti di origine animale, indipendentemente dal loro prezzo. Un fatto questo probabilmente legato anche al valore sociale e culturale percepito da secoli per questi alimenti.

Quali sono le misure di controllo riguardanti la tracciabilità e la sicurezza delle carni in Italia?

La qualità e la sicurezza degli alimenti, in Italia così come in tutta l’Unione europea, sono una priorità tale da potere considerare i Regolamenti sulla sicurezza alimentare fra i capisaldi normativi dell’Unione stessa. Fra tutti i sistemi di controllo attivati negli ultimi decenni, spiccano quelli legati alla tracciabilità delle carni e all’etichettatura dei prodotti. Tanto che recentemente l’Ue ha deciso che bisogna mettere sulle etichette di tutte le carni (non solo quelle bovine) la loro origine. La strategia europea è quella di prevenire qualsiasi contaminazione dei prodotti alimentari da sostanze presenti nell’ambiente o dovuta ad attività umane (azioni preventive), e creare una rete di controlli che monitori in modo costante la presenza negli alimenti di residui di sostanze che potrebbero essere dannose per la salute pubblica (azioni di controllo).

Fra le azioni preventive rientra un piano di autocontrollo da parte di tutti gli operatori del settore alimentare, attuato con l’applicazione del sistema HACCP (Analisi dei pericoli e punti critici di controllo). Questo, in particolare, mira a prevenire la presenza nei cibi di sostanze potenzialmente dannose per l’organismo umano, passando da un controllo a valle dei cibi che finiscono sulle nostre tavole ad un controllo in ogni fase della loro produzione. Per quanto riguarda le misure di controllo, dal 2006 sono stati definiti dei limiti di accettabilità dei contaminanti negli alimenti quali nitrati, micotossine, metalli pesanti e diossine. Allo stesso tempo, si sono incaricati degli organismi di ricerca di fare una costante analisi scientifica dell’impatto che i contaminanti noti possono avere sulla salute umana, e sulla potenziale tossicità delle nuove sostanze usate in agricoltura. Da sei anni, inoltre, sono stati adottati tre Regolamenti (149, 260 e 839 del 2008) relativi ai limiti massimi di residui di antiparassitari (LMR) nei prodotti alimentari, per l’impiego di fitofarmaci sulle colture destinate all’alimentazione animale.

L’attendibilità di questi limiti è verificata dall’EFSA (European Food Safety Authority), organismo indipendente che offre una consulenza scientifica su tutte le questioni che influiscono sulla sicurezza alimentare. In Italia, invece, il Ministero della Salute emana annualmente il Piano Nazionale per la Ricerca dei residui (PNR), in cui sono riportati i risultati delle analisi inerenti la presenza di residui di sostanze tossiche negli alimenti. Secondo la Relazione finale del PNR del 2014, i risultati del piano di monitoraggio hanno evidenziato che ben il 99,89% dei campioni era conforme alla normativa prevista dai regolamenti europei.

È vero che i polli crescono chiusi in gabbia?

No, non è vero. E per avere conferma di ciò, è sufficiente visitare uno degli oltre 4.000 allevamenti italiani, dove tutti i polli, tacchini e altri avicoli da carne non sono allevati in gabbia, bensì a terra, liberi di razzolare in ambienti spaziosi e luminosi, muovendosi su strati di paglia o truciolati di legno assorbenti e igienici. In alcuni casi ci sono anche allevamenti all’aperto.

Sono quasi 50 anni, dai primi anni ‘60, che non esiste l’allevamento “in batteria” di pollo da carne. Questo pregiudizio (comune ancora oggi a ben 8 italiani su 10) è dovuto principalmente ai retaggi del passato e a una erronea confusione tra l’allevamento dei polli da carne e quello, ancor oggi molto diffuso, delle galline ovaiole, dove gli animali vengono allevati non più in batterie, ma in gabbie modificate secondo la più recente normativa comunitaria sul benessere animale, così da garantire agli animali agio e salute, unitamente all’igiene delle uova prodotte.

Accanto a normative orizzontali, che garantiscono il benessere di qualsiasi specie animale nelle fasi di allevamento, trasporto e macellazione, sono in vigore anche numerose normative verticali, che stabiliscono i requisiti di benessere nell’allevamento di ogni singola specie, tra cui le galline ovaiole o i polli da carne.

L’impegno del settore avicolo nel garantire una omogenea e ottimale applicazione di queste normative sul territorio nazionale ha dato luogo a importanti iniziative, come la stesura del manuale di “Procedure operative per la protezione degli avicoli durante il trasporto”, in collaborazione con la Società Italiana di Medicina Veterinaria Preventiva e con l’approvazione del Ministero della Salute. In via di approvazione con il medesimo Ministero è, invece, il manuale di “Corretta prassi operativa per gli incubatoi avicoli”. Infine, il settore avicolo (Unaitalia) si è fatto promotore di numerosi corsi di formazione in materia di benessere animale per gli allevatori su tutto il territorio nazionale, arrivando alla formazione di oltre 1500 allevatori.

Ormai tutti i polli da carne vengono allevati a terra e a sessi separati in appositi capannoni, dove la densità viene solitamente mantenuta attorno ai 30-33 kg di peso vivo per metro quadro (che corrispondono ad un massimo di circa 12 polli, considerando un peso medio alla macellazione di 2,5 kg). L’allevamento a terra è, tra l’altro, la scelta da preferire considerando le positive ricadute sulle caratteristiche organolettiche delle carni, che risultano in questo modo molto più gradite ai consumatori.

Le attuali disposizioni di legge in Italia (D.Lgs. 27.09.2010 n. 181) prevedono che sia il proprietario, sia il detentore siano responsabili del benessere degli animali e dell’applicazione delle misure previste. Tale norma prevede densità massime di allevamento pari a 33 e 39 kg/m2 in funzione delle condizioni ambientali degli allevamenti.

In un’intervista rilasciata a marzo 2014 per la rivista Food, il presidente di Unaitalia Aldo Muraro fa notare come sulle carni avicole resistano ancora molti pregiudizi e falsi miti: “Per esempio solo tre italiani su 10 sanno che il 99% del pollo che consumiamo in Italia è allevato nel nostro Paese e che basterebbe leggere l’etichetta per verificarlo. Allo stesso modo, oltre l’80% degli italiani ignora che l’allevamento dei polli da carne avvenga a terra e non in gabbia”. Per informare correttamente i consumatori, Unaitalia ha lanciato il blog vivailpollo.it, uno spazio con risposte anche a dubbi e curiosità.

E’ vero che i vitelli sono allevati in gabbia?

Contrariamente a quanto comunemente si crede, non è consentito l’allevamento in gabbia dei vitelli. Gli animali devono infatti rimanere esclusivamente in box e in gruppi per rispettare le caratteristiche di elevata socialità che caratterizzano il comportamento di questi animali.

A questo proposito, le norme sono stabilite dal Decreto Legislativo 7 luglio 2011, n. 126. Esse richiedono che nessun vitello di età superiore alle otto settimane sia rinchiuso in un recinto individuale; ogni recinto individuale non deve avere muri compatti, ma pareti divisorie traforate che consentano un contatto diretto, visivo e tattile tra i vitelli.

Per quanto riguarda i vitelli allevati in gruppo, invece, lo spazio libero disponibile per ciascun vitello varia in funzione del peso: deve essere pari ad almeno 1,5 m2 per ogni vitello di peso vivo inferiore a 150 kg, ad almeno 1,7 m2 per ogni vitello di peso vivo pari o superiore a 150 kg, ma inferiore a 220 kg e ad almeno 1,8 m2 per ogni vitello di peso vivo pari o superiore a 220 kg. Inoltre, si devono garantire isolamento termico, riscaldamento, ventilazione e giusta illuminazione al fine di mantenere l’ambiente sano e favorire crescita e benessere dei vitelli.

Oltre a queste condizioni, i locali di stabulazione devono poter consentire a ogni vitello di coricarsi, giacere e alzarsi senza difficoltà.

I suini vivono nello sporco?

Spesso si pensa erroneamente al maiale come a un animale sporco. In realtà i suini, avendo scarse capacità di sudorazione, in natura si rotolano nel fango per rinfrescarsi e combattere i parassiti.

Quando sono confinati in un recinto di dimensioni sufficienti, tendono a defecare in zone definite (a differenza di altri animali da allevamento), mantenendo le aree di riposo e di attività pulite. Esiste inoltre il Decreto Legislativo 7 luglio 2011, n.122 (che di fatto è la norma vigente in Italia come recepimento della Direttiva 2008/120/CE), relativa alla gestione dei suini in allevamento.

In questa norma sono contenute numerose prescrizioni per la tutela del benessere, in particolare relativamente agli spazi a disposizione per ciascun animale, il tipo di pavimentazione e la fornitura di materiale specifico perché i suini possano grufolare.

Mangiare carne provoca il cancro o altre patologie?

A questa domanda rispondiamo con le parole dell’Airc, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, che sul suo sito scrive: “Le proteine animali sono costituite dalle stesse molecole chimiche di quelle vegetali, gli amminoacidi. La loro pericolosità per la salute, se consumate in eccesso, risiede principalmente nel modo con cui interagiscono con l’organismo. Per esempio, la lavorazione delle carni per la loro conservazione e le modalità di cottura modificano le molecole presenti, rendendole potenzialmente pericolose per la salute. I cibi di origine animale contengono, oltre alle proteine, anche molte altre sostanze tra cui i grassi saturi e il ferro del gruppo eme. In dosi eccessive essi stimolano l’aumento di colesterolo, i livelli di insulina nel sangue e l’infiammazione del tratto intestinale, aumentando il rischio di certe patologie, tra cui i tumori, in particolare quelli del colon-retto. Un consumo modesto di proteine animali non è pericoloso per la salute umana. Di contro, un eccessivo consumo di carni rosse o lavorate è associato a un maggior rischio di sviluppare diabete, malattie cardiovascolari e tumori. […]

Per quanto riguarda le altre malattie, sempre il sito Airc scrive che “nessuna patologia è causata soltanto dal consumo di carne, e non vi è una relazione di causa ed effetto diretta e assoluta tra consumo di proteine animali e lo sviluppo di una data malattia. […]  Non sono ancora presenti studi che indichino una relazione convincente tra rischio di malattie e modesto consumo di proteine animali; anzi, in certi casi un apporto molto limitato di proteine animali ha effetti benefici, perché fornisce importanti micronutrienti”.

Recenti ricerche del World Cancer Research Fund e The Institute of Cancer Research, suggeriscono di limitare il consumo di carne a 100-120 g al giorno, indicando un aumento del rischio oltre la soglia dei 160 g. Se si considerano i consumi suggeriti da una dieta equilibrata, si nota che in Italia le quantità suggerite già coincidono con il consumo reale. Per tali quantità la relazione tra patologie e consumi non è dimostrabile e gli studi scientifici portano a conclusioni non definitive.

Una dieta sempre più calorica insieme ad uno stile di vita sedentario, sono tra i principali fattori di rischio riconosciuti per la diffusione della cosiddetta “diabesità” termine coniato dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) per sottolineare la stretta associazione tra diabete mellito di tipo 2 e l’obesità patologica.

In alcuni Paesi europei obesità e sovrappeso sono arrivati a colpire il 50% della popolazione e un bambino su tre. Su quest’ultimo aspetto, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) sottolinea come la maggior parte dei cibi reclamizzati, ricchi di grassi, zuccheri o sale siano uno dei fattori di rischio per l’obesità infantile e altre malattie croniche legate alla dieta. Al top le bibite zuccherate tipo soft-drink, cereali zuccherati per colazione, biscotti, snack, dolciumi e piatti pronti. Mentre l’incidenza di queste patologie, nel tempo, è cresciuta, il consumo di carne è diminuito.

Perché è importante la presenza delle proteine animali in una dieta equilibrata?

Premesso che se si parlasse solamente di proteine potremmo dire solamente che a parità di apporto, le proteine animali hanno un valore biologico superiore. Per fortuna i prodotti animali non apportano solamente proteine ma anche vitamine (alcune delle quali assenti o scarse nelle fonti vegetali), minerali estremamente importanti come ferro, zinco e calcio. In un corretto regime alimentare quindi ci deve essere spazio sia per proteine accompagnate dai minerali e vitamine suddetti, e con un basso apporto calorico, sia per proteine accompagnate da fibra e carboidrati, come quelle tipiche dei vegetali, con apporto calorico superiore.

Mucca Pazza è archiviata da tempo: cosa si può dire oggi sui controlli delle carni? Possono stare tranquilli i consumatori italiani?

I controlli in Italia sono tantissimi e accurati, per cui gli italiani possono stare tranquilli. Il sistema italiano di controlli è all’ avanguardia soprattutto per quanto riguarda la filiera dei prodotti carnei; a partire dalla crisi della mucca pazza si è strutturato un pacchetto di normative e di programmi di controlli capillari che tutelano il consumatore lungo tutti i passaggi della filiera.

Qual è il valore economico degli allevamenti in Italia?

Il settore economico delle carni genera in Italia un valore economico dell’ordine dei 30 miliardi di euro all’anno, rispetto ai circa 180 dell’intero settore alimentare ed ai 1.500 del PIL nazionale. Le tre filiere principali (avicolo, bovino e suino) generano un valore all’incirca equivalente.

Le differenze si trovano nell’analisi della bilancia commerciale: la filiera bovina importa il 42% circa del fabbisogno complessivo, la filiera avicola è pressoché neutra, la filiera dei salumi è caratterizzata soprattutto da esportazioni di prodotti finiti, ma da forte importazione di carne suina fresca.

In un Paese che, come l’Italia, risente molto degli effetti della crisi globale, il ruolo economico della produzione di carne e di prodotti lattiero-caseari, da una parte costituisce la prima voce fra le principali produzioni agricole italiane, dall’altra riveste un ruolo importante in varie economie locali, che contribuiscono in modo non indifferente al totale nazionale. La pratica dell’allevamento rappresenta un’importante fonte di reddito anche nel resto del mondo.

Perché la carne costa così cara, rispetto a molti altri alimenti?

Nell’ambito dei consumi alimentari, le carni contribuiscono al 20-23% del totale dello “scontrino” mensile di una famiglia media. La filiera di produzione delle carni è complessa, occorre tenere conto di diversi aspetti, dalla produzione dei mangimi, alla gestione degli allevamenti, alla fase di macellazione e alla successiva lavorazione della carne, oltre che alla distribuzione e alla conservazione.

La presenza di queste fasi, ciascuna fondamentale, fa sì che il costo della carne, confrontato con altri alimenti, a parità di peso, sia più alto, soprattutto se questi alimenti sono alimenti più “semplici” e caratterizzati da una filiera più corta.

La carne è più costosa se confrontata ad altri alimenti, ma non in senso assoluto: pensiamo ad esempio alle carni avicole, che sono sicuramente quelle con il rapporto qualità-prezzo più conveniente.

Le carni in generale non portano a maggiori spese, se consumate seguendo le quantità suggerite dalle linee nutrizionali della Dieta Mediterranea, concetto ben descritto dalla “Clessidra economica” (calcolata a partire dalle stesse ipotesi di quella ambientale), che esprime il costo settimanale della dieta suggerita dalle linee INRAN (ora CREA – Alimenti e Nutrizione).

Cosa si intende per spreco di cibo?

Ci sono molti modi di intendere lo spreco. Quello utilizzato in questo documento identifica lo spreco sociale come la quantità di cibo edibile che non viene utilizzato per il consumo umano. Non rientrano quindi nella contabilità tutti gli scarti “necessari”, come ad esempio la buccia di una banana, il guscio di un uovo o l’osso di una bistecca.

Partendo da questa definizione, si stima che in Italia gli sprechi di cibo ammontino a circa 5,5 milioni di tonnellate all’anno, pari al 3% della quantità complessivamente prodotta.

Sono molti gli sprechi nella filiera della carne?

Tutte le fasi di ogni filiera alimentare, purtroppo, generano scarti. Quella della carne, anche per l’enorme quantità di destinazioni che hanno i suoi sottoprodotti e il riutilizzo di liquami reflui zootecnici e scarti di macellazione per la produzione di energia, è in questo senso tra le più virtuose.

La produzione e il consumo di carne, infatti, generano una quantità di scarti più che dimezzata rispetto a frutta e verdura, e pari quasi alla metà dei rifiuti prodotti dalla filiera dei cereali. Scarti che, nonostante gli sforzi di ridurre l’impatto ambientale di questo settore, sono dovuti prevalentemente alla fase di consumo finale. Un fatto questo probabilmente legato anche al valore sociale e culturale percepito da secoli per questi alimenti.

Come si possono ridurre gli sprechi di carne in cucina?

I prodotti alimentari meno sprecati in cucina sono quelli di origine animale, e in particolare la carne. Del resto, sono quelli dal più elevato valore nutrizionale, e quindi quelli a cui è sempre stata data più importanza, sia a livello sociale che culturale. Oggi come ieri, di conseguenza, trovare modi per evitare di buttare via la carne è un’importante abilità, tanto per le mamme e le nonne quanto per i più celebri chef stellati.

I metodi per ridurre a zero gli sprechi di questo nobile alimento sono innumerevoli. Dalla valorizzazione degli scarti delle Feste o del giorno prima, semplicemente riscaldandoli, rielaborandoli in nuove e fantasiose ricette o attraverso geniali quanto semplici invenzioni culinarie come polpette e polpettoni, evitare di sprecare la carne, i salumi e altri prodotti (come latte e uova) che rimangono in frigo è molto semplice. Bastano un po’ di immaginazione e di memoria.

Per promuovere la cultura del “riciclo”, Carni Sostenibili ha recentemente collaborato con due noti chef: Massimo Bottura e Lisa Casali, le cui ricette sono descritte sul portale www.carnisostenibili.cvdemo.online