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Fact-Checking Day: le 5 bufale più diffuse sulla carne

La carne e i suoi impatti sulla salute e l’ambiente. Se ne parla molto, ma non se ne sa abbastanza. Carni sostenibili, l’associazione che promuove un dibattito informato intorno al consumo e alla produzione delle proteine animali, in occasione della Giornata mondiale contro le Fake News, diffonde un vademecum per parlare di carne e dei suoi impatti in maniera corretta.

 

1) La produzione di carne non è sostenibile. Servono 15.000 litri d’acqua per produrne un chilo di carne bovina. Falso!

Le fonti su cui si basano queste stime quantificano il volume di acqua utilizzata e non l’impatto ambientale dell’acqua consumata nella produzione. Ma non tutta l’acqua è uguale: l’acqua presa dalla falda non ha lo stesso impatto ambientale di quella piovana o di quella scaricata. In Italia per produrre 1kg di carne bovina servono 790 litri d’acqua perché l’80-90% di queste risorse idriche ritorna nel naturale ciclo dell’acqua. Se usassimo per tutti gli alimenti una classificazione che non prende in considerazione la tipologia delle acque utilizzate, scopriremmo che ad inquinare più della carne sono in realtà il cioccolato e il caffé.

È vero che per produrre 1Kg di carne di manzo servono 15.000 litri d’acqua? Non proprio, soprattutto in Italia: vediamo perché. Innanzitutto, la quasi totalità̀ dei dati di letteratura relativi all’impronta idrica dei prodotti alimentari è stata pubblicata dal Water Footprint Network (WFN), attraverso un’analisi che non quantifica l’impatto ambientale associato all’utilizzo d’acqua, ma soltanto la quantità di acqua utilizzata. Con il Water Footprint, infatti, si calcola di solito la quantità di acqua utilizzata nei processi produttivi. È la cosiddetta «acqua virtuale» che, quando si parla di carne, include anche quella usata per coltivazione dei foraggi necessari all’alimentazione del bestiame e nella fase di macellazione. Questo metodo di valutazione dei consumi d’acqua nel settore zootecnico calcola l’impronta idrica di un prodotto sommando appunto l’acqua «blu», quella prelevata dalla falda o dai corpi idrici superficiali, l’acqua «verde», quella piovana evo-traspirata dal terreno durante la crescita delle colture, e l’acqua «grigia», il volume d’acqua necessario a diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione. Utilizzando questo genere di classificazione apprendiamo che al vertice dei prodotti che consumano più risorse idriche per produzione si trovano prodotti generalmente considerati “innocui”, quando non veri toccasana, come pasta di cacao, cioccolato e caffè che valgono rispettivamente 24.000 litri/kg, 17.000 litri/kg e quasi 19.000 litri/kg.

In Italia, ad esempio, si impiega rispetto alla media mondiale il 25% d’acqua in meno per produrre un chilo carne bovina. Una seconda criticità sostanziale è che, prendendo in esame il valore complessivo (medio mondiale) e ignorando il contesto locale in cui avvengono la produzione e l’allevamento, non si mette in relazione il prelievo di acqua con la disponibilità di quel territorio.

Tenendo dunque conto del consumo effettivo d’acqua per 1kg chilo di carne in una filiera efficiente possiamo affermare che in Italia per produrre 1Kg di carne bovina vengono consumati effettivamente 790 litri*(Alberto Stanislao Atzori, Caterina Canalis, Ana Helena Dias Francesconi, Giuseppe Pulina, A preliminary study on a new approach to estimate water resource allocation: the net water footprint applied to animal products, Science Direct). E anche quando l’allevamento non si distingue per efficienza il consumo si attesta al massimo a 7000 litri, la metà di quanto comunemente viene stimato. A livello complessivo, infatti, l’intero settore italiano delle carni (bovino, avicolo e suino) impiega per l’80-90% risorse idriche che fanno parte del naturale ciclo dell’acqua e che sono restituite all’ambiente come l’acqua piovana, mentre solo il 10-20% dell’acqua necessaria per produrre 1 kg di carne viene effettivamente consumata.

 

2) Gli allevamenti sono responsabili della propagazione dell’epidemia da covid-19. Falso!

L’associazione tra gli allevamenti moderni, ovvero quelli diffusi in tutto il mondo occidentale e in Italia, e la diffusione di virus come il Covid-19 è infondata e priva di basi scientifiche. Si tratta di una correlazione strumentale e ideologica, Il salto di specie all’origine dei virus avviene dalla commistione tra animali selvatici, animali domestici e uomo: gli allevamenti moderni degli animali allevati per uso zootecnico rappresentano invece una barriera a difesa sia della salute umana che animale. Negli allevamenti “protetti” vigono stringenti ed elevate misure di biosicurezza e sono applicate rigorose regole e continui controlli veterinari.

Non esiste nessuna evidenza scientifica che gli animali allevati per uso zootecnico possano rappresentare un pericolo per il contagio di Covid19 e gli allevamenti, soprattutto quelli intensivi, sono un presidio di biosicurezza per animali e uomini, in quanto tutte le precauzioni sono costantemente assunte per evitare che agenti infettivi esogeni possano compromettere la salute degli animali e possano trasmettersi all’uomo.

Lo sviluppo della zootecnia occidentale e la realizzazione e la gestione degli allevamenti moderni sono basati sui risultati della ricerca scientifica e fondati su investimenti costanti in sanità animale e biosicurezza. Il tema della biosicurezza all’interno degli allevamenti “protetti” vede impegnati da anni tutti gli attori della filiera, per garantire agli animali allevati in ambienti ottimali sotto il profilo del benessere, dei parametri microclimatici e della protezione da agenti esterni potenzialmente pericolosi. È questa la ragione per la quale, quando gli esperti prevedono un rischio di introduzione di agenti zoonotici (vedi l’influenza aviaria portata dagli anatidi selvatici nelle loro rotte migratorie) il Ministero della Salute adotta a scopo preventivo l’obbligo di tenere al chiuso anche animali che sono allevati all’aperto.

 

3) Gli allevamenti inquinano più dei trasporti! Falso!

Prendendo in esame il solo settore zootecnico, in Italia il contributo totale ai gas serra è del 4,6% (report Ispra). Un viaggio aereo Roma-Bruxelles, ad esempio, genera più emissioni del consumo di carne di un italiano per un intero anno nell’ambito di un regime alimentare equilibrato.

Secondo lo studio FAO “Tackling climate change through livestock”, nel mondo tutto il settore zootecnico ha un impatto climalterante del 14,5% sul totale delle emissioni di gas ad effetto serra. In Europa tutto il settore agricolo è responsabile del 10,3 % delle emissioni di gas a effetto serra. Quasi il 70 % di esse proviene dal settore dell’allevamento e consiste di gas a effetto serra diversi dalla CO2 (metano e protossido di azoto). Questo significa che, grazie all’efficienza produttiva e all’innovazione tecnologica raggiunte dall’Unione Europea, gli impatti del sistema zootecnico sono del 7,2%, già oggi la metà delle emissioni mondiali. Il caso italiano è ancora più efficiente: l’ISPRA ha evidenziato che l’impatto del settore agricolo sull’ambiente è pari al 7,1%, di cui 4,6% imputabile al settore zootecnico.

Le principali cause dell’effetto serra sono la presenza nell’atmosfera di sostanze gassose come l’anidride carbonica (CO2) e il metano. La CO2 si ottiene soprattutto dai processi di combustione dei combustibili fossili come il petrolio e i suoi derivati, del carbone e del legno. I vegetali, mediante la fotosintesi clorofilliana, hanno la capacità di utilizzare il carbonio della CO2 e di “liberare” l’ossigeno che restituiscono all’atmosfera, mantenendo inalterati gli equilibri. Un equilibrio rotto non certo dall’allevamento, quanto da altre attività come il riscaldamento, la produzione di energia, i sempre più frequenti trasporti ecc. Il metano è emesso in atmosfera per metà dalla attività di estrazione e distribuzione del gas fossile, per ¼ dai processi digestivi dei ruminanti e per il restante ¼ dalle risaie e altre attività agricole. Questo gas si ottiene negli animali (anche selvatici e nelle termiti) dal metabolismo di alcuni batteri chiamati “metanogeni” che si trovano nell’ambiente e nell’apparato digerente degli animali. Nel corso dei millenni, l’aumento della produzione di metano non è dipeso certo dalle risaie e dai ruminanti. Sono invece molto aumentate le attività umane che comportano la produzione di questi gas serra e soprattutto il numero di persone che “contribuiscono” alle emissioni di gas climalteranti attraverso un sempre più massiccio sfruttamento dei combustibili fossili. Giusto per fare un esempio, gli aerei bruciano miliardi di tonnellate di carburante immettendo nell’atmosfera quantità impressionanti di CO2: un solo volo andata e ritorno da Roma a Bruxelles genera più emissioni del consumo di carne di un italiano per un intero anno! (calcolo effettuato su Eco Passenger).

 

4)  In Italia mangiamo 79,1 kg di carne all’anno. Troppa! Falso!

Le stime si riferiscono ai consumi apparenti, che considerano anche le parti non commestibili. In Italia, infatti, in media il consumo reale è di circa 37,9 Kg di carne all’anno.

C’è qualcosa che non viene preso in considerazione quando si accetta come vera l’esorbitante stima di 79,1 kg, al lordo delle parti non edibili) di carne all’anno consumata pro-capite in Italia, che comunque posiziona il nostro Paese al terzultimo posto per consumo in Europa. E cioè che tale stima si basa sui «consumi apparenti» che, a differenza dei «consumi reali», prendono in considerazione anche tutte le parti non edibili dell’animale: tendini, ossa, grasso, cartilagini…

A sgombrare il campo da equivoci ci ha pensato l’imponente lavoro di ricerca dell’equipe dell’Università di Bologna, coordinata dal professor emerito di Zootecnia Vincenzo Russo, insieme alla Commissione di studio Istituita dall’ASPA (Associazione Scientifica per la Scienza e le Produzioni Animali).”Consumo reale di carne e di pesce in Italia“ il titolo del lavoro del team di studio che ha rivisto al ribasso le stime sul consumo di carne finora disponibili che si basavano unicamente sulla quantità di carni prodotte e importate, senza tenere in considerazione che esistono parti commestibili e parti non commestibili. Il lavoro della squadra di ricercatori italiani racconta una realtà molto diversa: il consumo reale pro-capite di carni totali corrisponde a 104 grammi al giorno (e non a quasi 215 gr come invece si pensava) pari a 728 g alla settimana e 37,9 kg all’anno, meno della metà di quei 79,1 kg di cui si sente spesso parlare.

Tale consumo prende in considerazione tutta la carne, indipendentemente dalle modalità̀ di assunzione (cruda, cotta, trasformata in salumi, presente in preparazioni alimentari miste, inscatolata ecc.) e dai luoghi dove si sceglie di consumarla (casa, ristoranti, fast food, mense, comunità̀, bancarelle ecc.). Considerando solo la carne bovina, il consumo reale scende a 29 grammi al giorno pro capite, una quantità ben al di sotto delle raccomandazioni dell’OMS che fissano a 100 gr il consumo giornaliero di carne rossa al di sopra del quale possono iniziare a sorgere alcuni problemi di salute. (Fonte: elaborazione Censis su dati Gira – estratto da ricerche Fondazione Censis “Gli italiani a tavola: cosa sta cambiando a tavola”, ottobre 2016 – Tutte le tipologie di carne, bovina, suina, pollo, ovina, al lordo delle parti non edibili)

 

5) La carne fa venire il cancro, lo dice l’OMS! Falso!

L’OMS, tramite la IARC, ha analizzato il rischio di svilupparlo in relazione a un consumo eccessivo di carne (molto al di sopra di quello italiano).

Siamo nell’ottobre 2015 quando si diffonde la notizia che l’Organizzazione Mondiale della Sanità avrebbe sancito la relazione tra consumo di carne e cancro. Ma le cose non stavano proprio così. La IARC, l’agenzia dell’OMS che valuta e classifica le prove di cancerogenicità delle sostanze, ha classificato le carni rosse nella categoria 2 A “probabilmente cangerogene “mentre le carni trasformate nella categoria 1 A “cancerogene” affianco all’alcool. La IARC non ha mai affermato che la carne rossa provoca il cancro, ma che un consumo eccessivo di carne rossa e trasformata può̀ contribuire al rischio di un solo tipo tumore (sui 156 conosciuti e classificati), quello del colon-retto. Sul sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si legge: “Nel caso della carne rossa, la classificazione si basa su prove limitate provenienti da studi epidemiologici che mostrano associazioni positive tra il consumo di carne rossa e lo sviluppo di tumori del colon-retto, nonché una forte evidenza meccanicistica. Evidenze limitate indicano che è stata osservata un’associazione positiva tra esposizione all’agente e cancro, ma non è stato possibile escludere altre spiegazioni per le osservazioni (tecnicamente definite caso, bias o confusione)”. Si fa quindi riferimento «all’eccesso» dei consumi, e non a un consumo inteso in senso generale, con un aumento del rischio relativo di circa il 18% per le carni trasformate e del 17% per le carni rosse, ben diverso dal rischio «assoluto» o reale che scende a solo l’1%. Altra importante considerazione riguarda le quantità prese in esame dalla ricerca IARC, che sono superiori 50 grammi di carne trasformata e 100 grammi di carne rossa al giorno: livelli di consumo notevolmente più alti rispetto a quelli medi italiani, per cui il rischio diventa trascurabile quando si riportano i calcoli ai nostri consumi effettivi. Secondo la IARC, poi, i fattori di rischio delle carni non dipendono dalla carne in sé, ma sono dovuti principalmente ai metodi di conservazione, preparazione e cottura di carne e derivati (come quelle su fiamma diretta tipiche del barbecue), da cui possono scaturire amine eterocicliche aromatiche, idrocarburi policiclici aromatici e nitrosammine, composti che inducono mutazioni cancerogene. Il Global Burden Disease  ci dice che carni rosse e processate sono agli ultimi posti sia come DALY (anni di vita persi per invalidità) che come mortalità, anche nei paesi sviluppati. (letteralmente, “High consumption of red meat, processed meat, trans fat, and sugar-sweetened beverages were towards the bottom in ranking of dietary risks for deaths and DALYs for most high-population countries”).

In particolare, il rischio di mortalità per cancro per consumo eccessivo di carni trasformate è globalmente di 8/100.000 e di carni rosse di 5/100.000 ab; in concreto, su 20 milioni di DALY e 0,93 milioni di morti attribuibili al cancro da cause alimentari, carni trasformate + carni rosse pesano per il 3% (650.000) per DALY e per il 2,8% (26.400) per la mortalità, sul cancro. Se riferiamo a tutte le cause alimentari (DALY 225 milioni e mortalità 11 milioni globalmente) il dato diventa irrilevante: 0,3% per  i DALY e 0,24%  per la mortalità. Sono rischi talmente bassi da essere considerati assolutamente trascurabili, cioè INESISTENTI.

 

Il Progetto “Carni Sostenibili” vuole individuare gli argomenti chiave, lo stato delle conoscenze e le più recenti tendenze e orientamenti tecnico scientifici, con l’intento di mostrare che la produzione e il consumo di carne possono essere sostenibili, sia per la salute che per l’ambiente.