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E se decidessimo di mangiare carne solo la domenica?

Il Professor Pulina risponde alla ricerca pubblicata il 19 settembre su Il Sole 24 Ore nella sezione INFO DATA dal titolo “Che cosa accadrebbe se decidessimo di mangiare carne solo la domenica?”.

Arriva un nuovo studio su quella che ormai è definita la panacea di tutti i mali: smettere di mangiare carne per salvare il pianeta. Un team dell’Università di Oxford ha messo in fila gli impatti ambientali delle diverse tipologie di diete, dalla più ricca di carne alla più povera in proteine animali, e neppure a dirlo, sembrerebbe lampante ed evidente che per inquinare meno sia sufficiente portare meno carne in tavola. Tutto bene, ma… Ancora una volta gli studiosi, ma soprattutto chi usa gli studi come supporto alle proprie tesi, ignorano il solito elefante nella stanza. Eppure lui è lì, ben visibile.

Innanzitutto, un piccolo appunto sullo studio in generale, il fatto che sia stato pubblicato su una prestigiosa rivista scientifica, Nature, non ne fa automaticamente il verbo, anzi, il modo che gli autori hanno di lasciar intravedere, nei commenti sparsi nel testo, un certo latente pregiudizio vegano, mina proprio la qualità scientifica del lavoro.

Ma non è tutto, lo studio si basa su una simulazione al computer di diete inglesi e i dati raccolti si riferiscono a questionari somministrati negli anni ‘90 del secolo scorso. Quante cose sono cambiate negli ultimi 30 anni? E non solo in termini di diete, ma anche nel mondo in cui i dati sulle diete vengono rilevati, gli esperti, infatti, hanno riconosciuto che quegli approcci avevano profondi bias metodologici. Senza contare che il consumo di carne censito nello studio non è suddiviso per tipologia e non fornisce informazioni concrete sulla dieta consumata, se non il valore calorico, ma niente dell’apporto proteico o sul bisogno di amminoacidi.

Insomma, si tratta di uno studio che nulla aggiunge, ma che molto toglie alla conoscenza finora accumulata sull’argomento. Sotto il profilo del metodo poi, impiegare un solo dataset, cioè un solo insieme di dati, per quanto prestigioso (visto che quello in questione è stato pubblicato su Science) non è sufficiente per coprire tutta la gamma di impatti possibili. Ad esempio il dataset utilizzato, per quanto accurato, impiega per la water footprint, la misurazione dell’impatto ambientale calcolato in base all’acqua consumata, metodi non standard ISO e per gli altri parametri, quale ad esempio la biodiversity-footprint, dati molto controversi e non validati dalla comunità scientifica.

Se si eliminasse il consumo di #carne e di #pesce, ci sarebbero seri danni per la #salute umana. Condividi il Tweet

Per non parlare del fatto che questo studio non prende minimamente in considerazione le nuove metriche proposte per rivedere gli impatti ambientali dell’allevamento in base alla permanenza in atmosfera dei gas, e neanche valutazioni differenti che deriverebbero dall’impiego di una unità funzionale diversa e più aderenti agli alimenti di origine animale come ad esempio l’unità di DIAAs (Digestible Indispensable Amino Acids Score) che permette la valutazione della qualità delle proteine negli alimenti in rapporto al fabbisogno degli esseri umani. Diversi studi, infatti, mostrano dati completamente diversi, se al posto delle quantità tal quali sono presi in esame i principi nutritivi fondamentali.

Ma il danno maggiore che questo tipo di lavori portano al dibattito scientifico è la totale ignoranza degli effetti che la riduzione o l’eliminazione del consumo di carne (e di pesce, che porta a risultato molto simili nello studio, ma che stranamente non è citato fra i cibi dannosi per l’ambiente) porterebbe alla salute umana. In primo luogo, alla longevità, in secondo luogo alla salute delle popolazioni più povere del pianeta, vegane contro la loro volontà, che dovrebbero incrementare e non ridurre il consumo di ASFs (Animal Source Foods), e alla salute specifica di malati, fra i quali quelli di cancro.

E lo studio non tiene assolutamente conto neppure delle relazioni fra allevamento, in particolare di ruminanti, e i servizi ecosistemici resi dalle praterie, nonché la possibilità attraverso il consumo di carne di reimpiegare per via alimentare residui colturali e sottoprodotti che altrimenti non sarebbero direttamente commestibili per l’uomo.

Dare per scontato che le diete vegane siano più salubri (o salubri almeno quanto quelle che contengono alimenti di origine animale) è tratta di una svista monumentale, credere che la terra arabile (per coltivare i vegetali da produrre in più per sostituire i prodotti animali) sia infinita e che l’acqua da utilizzare per irrigare sia uguale alla pioggia che cade sui pascoli è una mancanza grave. Il sistema agroalimentare ha il suo più alto valore nella capacità di assicurare all’umanità la cosa più importante di tutte: cibo buono, sano, accessibile per tutti.

Insomma, tutto questo per dire che se le emissioni di sostanze impattanti sull’ambiente fossero commisurate all’importanza fondamentale del cibo, forse i giudizi che si formulano sulle filiere agroalimentari sarebbero più garbati e improntati a una cautela scientifica e non ideologica.

Presidente Emerito dell'Associazione per la Scienza e le Produzioni Animali, Professore Ordinario di Etica e Sostenibilità degli Allevamenti presso il Dipartimento di Agraria dell’Università di Sassari e Presidente dell’Associazione Carni Sostenibili. Fra i migliori esperti globali in scienze animali, è incluso nel 2% di scienziati maggiormente citati al mondo.