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Coronavirus, l’emergenza fa rivedere le priorità?

Il Coronavirus, al netto delle psicosi collettive e dei danni economici, permette alcuni spunti di riflessione. Uno su tutti, quello sulle priorità della popolazione in caso di emergenza: al primo segno di allarme, i banconi di carne e salumi nei supermercati sono stati svuotati.

L’Italia è un Paese che, oltre che con il cuore, sembra reagire spesso con la pancia. Lo sa bene chi, ad esempio, ha seguito nel 2015 la vicenda della monografia IARC/OMS, con giornali che mettevano titoli come “La carne fa venire il cancro” e persone che improvvisavano diete veg da un giorno all’altro. Già, nell’era dell’accesso e dell’informazione paradossalmente non importano i fatti, ma il sensazionalismo, i like facili, le opinioni basate sul sentito dire o sulla sola lettura di un titolo.

E così, allarmismo dopo allarmismo, paura dopo paura, da alcuni giorni in Italia non si parla che di Coronavirus. La reazione di buona parte del Paese? Il delirio, che tra le altre cose ha portato a svuotare gli scaffali dei supermercati. Inclusi ovviamente i banconi di carne e salumi, con buona pace delle smanie veg apparentemente così diffuse nel Belpaese.

Sono bastati pochi giorni per creare il panico. Non stupisce, in tempi in cui si è abituati a reagire in modo più emotivo che razionale. Ma quello che sta succedendo in questi giorni nel Belpaese offre un’infinita di spunti di riflessione. Potrei parlare degli effetti nefasti di un cancan mediatico assillante che, unito all’irresponsabilità di alcuni, sta creando effetti potenzialmente molto dannosi forse più a livello economico che sanitario.

Potrei fare presente che oggi mette la mascherina chi magari fa abitualmente jogging in fianco a strade trafficate, tiene i bambini nei passeggini ad altezza tubi di scarico, ignora che ci sono 400mila morti premature all’anno solo in Europa per inquinamento atmosferico. Potrei chiedere a chi parla da anni di Italexit come gestirebbe una situazione di isolamento del nostro Paese dai mercati anche solo europei; potrei fare e farmi domande che non avranno mai risposta. Ma non lo faccio, e qui mi limito a far notare una cosa: alla prima emergenza o presunta tale tutto ciò che non serve veramente passa in secondo piano, i supermercati vengono presi d’assalto e tutto quello che fino a poche ora prima sembrava indispensabile prima di un acquisto, come il bollino “vegan” sulla confezione o trovate pubblicitarie simili, come per incanto non contano più.

Penso sia normale, comprensibile, giusto: l’istinto di sopravvivenza, quella spinta atavica a prendersi cura dei bisogni primari sia nostri che dei nostri cari, fa considerare solo le cose che contano davvero. Che sia vera o meno l’emergenza che abbiamo attorno, ciò che conta è nutrirsi, possibilmente nel modo più completo possibile. E così, almeno per qualche giorno, le fisime pseudo-etiche permesse dal fatto di avere sempre tutto in abbondanza spariscono.

Nel delirio che si vive in questi giorni se ne sentono di tutte. C’è chi pensa che la diffusione del Coronavirus in Italia sia una qualche forma di complotto internazionale per affossare la macchina produttiva lombardo-veneta, rea di fare concorrenza alle aziende estere; c’è chi vede in questa situazione una qualche forma di legge del contrappasso, se non di punizione divina, per il comportamento di alcuni in questi ultimi anni verso migranti e bisognosi; e c’è ovviamente chi incolpa il fatto che gli animali non si debbano mangiare, visto che sono in molti convinti del fatto che il virus in Cina sia partito da una zuppa di pipistrelli, o comunque da prodotti di origine animale consumati nella città di Wuhan.

Sui social molti sedicenti animalisti hanno così colto la palla al balzo, speculando su questa situazione per fare i loro soliti proselitismi. Gli animali non si mangiano, gli animali non si uccidono e banalità già sentite migliaia di volte si sono unite a teorie del complotto o a campagne pubblicitarie molto creative. Come quella dell’inglese PETA, che nel suo spasmodico  tentativo di trovare soluzioni al problema ha colto un aspetto fondamentale del Coronavirus: è l’anagramma di Carnivorous… Sarà, ma nonostante queste rivelazioni anagrammatiche e i goffi tentativi di cavalcare la paura del virus, nei supermercati presi d’assalto i primi banconi ad essere stati svuotati sono stati quelli delle carni.

La mia umile riflessione qui non punta ad inutili e sterili polemiche, ma al far notare che tanti bei discorsi sull’etica generalmente ce li possiamo permettere perché sia gli scaffali del supermarket che le nostre pance sono sempre pieni. Questo momento di allucinazione collettiva non so a cosa porterà. Di sicuro a danni economici ingenti, ma spero anche a capire che non si deve dare niente per scontato. E che quando non si ha la possibilità di inventare nemici fantomatici dell’ambiente e della salute come per molti sono la produzione ed il consumo di carne, si torna a capire che determinati beni e alimenti sono di un’importanza letteralmente vitale, ma troppo spesso dimenticata.

Non a caso chi ha costantemente a che fare con emergenze umanitarie o sanitarie vere, oppure con fame e guerre, di spendere ingenti somme per acquistare prodotti iper-processati che si spacciano per etici e sostenibili non ci pensa nemmeno. Mentre da noi c’è chi alla seconda notizia allarmistica su tg e siti Web corre al supermercato e fa incetta di tutto ciò che può, carne inclusa. È lo spirito di sopravvivenza, è la natura umana che, a volte anche in società ricche, annoiate e viziate, torna a farsi sentire.

 

Giornalista specializzato in sostenibilità, cambiamento climatico e temi ambientali, scrive per diversi giornali, riviste e siti Web. Da una decina di anni è molto attivo sia come relatore che come moderatore presso eventi sempre legati alla sostenibilità ed alla green economy. Laureato in sociologia, fra i temi su cui focalizza il suo lavoro spiccano gli impatti delle produzioni alimentari, a partire da quelli legati alla zootecnia ed ai cibi animali. A fine 2018 ha pubblicato il libro “In difesa della carne”, edito da Lindau.