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Chiudere gli allevamenti? Smania animalista fuori controllo

Negli ultimi anni ho visto spesso girare in rete petizioni, spesso indirizzate a ministri o primi ministri, in cui però sono state formulate richieste letteralmente impossibili. Leggo molti testi di petizioni sui siti attraverso cui vengono lanciate, perché mi piace vedere cosa alcune persone pensano sia importante in un determinato momento. Molte di queste petizioni sono a dir poco assurde, ma quelle in cui si è chiesto ai decisori pubblici di chiudere gli allevamenti mi hanno colpito più di altre: qualunquiste, non-informate, per nulla autorevoli.

Chiariamo una cosa: volere chiudere gli allevamenti “intensivi”, che presumo per gli ideatori di queste petizioni siano semplicemente quelli più grandi, è insensato sia dal punto di vista economico che ambientale. Se in Italia ci fossero solo piccoli allevamenti, infatti, l’intero settore agroalimentare potrebbe crollare, lasciando senza lavoro oltre 180mila persone. Anche per i consumatori sarebbe un problema, perché queste produzioni, oltre ad essere meno controllabili a livello di sicurezza alimentare e benessere animale, offrirebbero prodotti eccessivamente costosi, e quindi acquistabili da una ristretta minoranza di privilegiati.

Oltre a questi effetti negativi, sapete un altro risultato di tutto ciò quale sarebbe? L’importazione da parte di tutti coloro che non possono permettersi i prodotti di cui sopra di carne proveniente da allevamenti (intensivi, ovviamente) di altri Paesi, in cui i controlli sono minori e in cui gli animali sono tenuti magari in pessime condizioni, a differenza di quanto avviene negli allevamenti italiani.

Secondo le previsioni della FAO, a livello globale la domanda di carne è destinata a raddoppiare nell’arco dei prossimi quattro decenni. E l’allevamento estensivo, a livello ambientale, è molto più impattante e meno efficiente di quello intensivo, in quanto richiede non solo spazi maggiori, ma anche molte più acqua e risorse naturali in generale.

Serve trovare metodi di produzione più sostenibili, che rispettino sempre più il benessere animale, come ho personalmente avuto modo di vedere stanno facendo le principali filiere italiane, invece che volere chiudere gli allevamenti intensivi. Richiesta insensata che, oltre a dimostrare come chi la fa non conosce le dinamiche che stanno dietro i settori alimentare e zootecnico, ignora le conseguenze che potrebbe avere. A partire dal rischio di uno sviluppo globale di pratiche illegali e clandestine molto meno rispettose degli animali (oltre che dell’uomo e dell’ambiente) di quelle invece ben controllate e regolamentate negli allevamenti (europei ed italiani in particolare).

C’è poi l’aspetto nutrizionale, su cui i promotori delle diete vegane fanno spesso leva. Certo l’eccessivo consumo di carne (così come di qualsiasi altro alimento) andrebbe evitato, ma la promozione di diete a sola base vegetale è da sconsigliare seriamente, per un semplice motivo: improvvisare regimi alimentari che escludano a priori la carne e i cibi di origine animale può avere conseguenze serie, soprattutto nei più piccoli.

In queste scalcagnate petizioni non manca mai l’argomento più in voga del momento, la non-notizia acchiappa-audience per eccellenza: l’uso di antibiotici negli allevamenti. “Il 70% degli antibiotici prodotti nel mondo finisce negli allevamenti intensivi”: una frase-stereotipo, ormai. Ma chi si lamenta del fatto che vengano usati gli antibiotici per gli animali lo sa che questi possono essere utilizzati ai soli fini di cura, terapia e profilassi dell’animale, e solo se preventivamente autorizzati dalle Autorità Sanitarie?

Le autorizzazioni per usare un antibiotico sono concesse soltanto a sostanze di cui è dimostrata l’efficacia, la sicurezza di uso per gli animali e di cui si conoscono le caratteristiche metaboliche, cioè in quanto tempo vengono “smaltite” dall’organismo animale. Sì, perché per legge bisogna anche rispettare i “tempi di sospensione”, ossia quelli necessari agli animali per smaltire l’antibiotico eventualmente assunto, in modo da evitare che ve ne sia la benché minima traccia nelle loro carni.

Quanta disinformazione diffusa attraverso delle banali petizioni. Quanta superficialità elevata ad impegno sociale! Quanta tristezza nel vedere delle battaglie ideologiche mascherate da interessamento per il bene della collettività. Quanto rumore inutile per una cosa che nemmeno si è mai ben definita. Qualcuno mi spiega infatti cosa significa di preciso “allevamento intensivo”?

Sarebbe il caso di darne una definizione (possibilmente ufficiale), per non generare ancora più confusione. Per poi scoprire che, forse, sono più “intensivi” il piccolo allevamento e il canile della nostra città. O quelle “pensioni” in cui hanno passato buona parte dell’estate il gatto e il cane a cui diamo un’attenzione familiare che, alla faccia del grande amore per i nostri amici a quattro zampe, ha bisogno di andare in ferie.

 

Fonte: L’Huffington Post

Professore Ordinario di Chimica Agraria e Ambientale, Università Cattolica del Sacro Cuore. È membro del gruppo di lavoro PROMETHEUS dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA). Dal 2009 è direttore del centro di ricerca sullo sviluppo sostenibile OPERA, con sede a Bruxelles e a Piacenza. Dall’inizio della sua carriera databile 1987 ha svolto ricerche sugli impatti dei contaminanti nell’ambiente e nei prodotti alimentare, sugli organismi animali e sull’uomo, studi che oggi integra nelle sue indagini di valutazione del rischio.