C’è sicurezza nelle stalle italiane
Gli allevamenti italiani sono sicuri: i dati del Piano Nazionale Residui relativi al 2021 dimostrano che carne, latte, uova e miele e i loro derivati offrono eccellenti garanzie di sicurezza: le irregolarità riscontrate sono in tutto appena 12, il 4 per mille del totale.
Arrivano a sorpresa, seguendo logiche imprevedibili. Entrano in allevamenti, stabilimenti di trasformazione delle carni e del latte, punti di vendita. Raccolgono campioni e li analizzano alla ricerca di qualunque molecola che non ci dovrebbe essere. È quanto accade più di 80 volte ogni giorno dell’anno, in tutta Italia. Alla fine si contano 30263 accertamenti con analisi che riguardano più di 466mila diverse sostanze, sia ad attività farmacologica sia inquinanti ambientali. Un ciclopico lavoro di sorveglianza che risponde alle regole del PNR (Piano Nazionale Residui), gestito dal Ministero della Salute. Un’attività che assolve gli obblighi previsti dai regolamenti europei, in molti casi superandoli, sia per i tempi di realizzazione, in anticipo rispetto alle scadenze, sia per il numero degli accertamenti eseguiti, superiori al dovuto. Ancora una volta, almeno in tema di salute animale e di controlli, l’Italia è di esempio per gli altri Paesi europei.
È recente la pubblicazione degli ultimi dati del PNR relativi al lavoro svolto nel 2021 e le conclusioni dimostrano una volta di più che carne, latte, uova e miele (e loro derivati) offrono eccellenti garanzie di sicurezza. Le irregolarità riscontrate sono in tutto appena 12, il 4 per mille del totale, praticamente nulla. Pochi casi dunque, nonostante l’accuratezza delle analisi consentita dalle attuali tecnologie di laboratorio, in grado di verificare una enorme gamma di sostanze, anche in tracce minimali. Episodi che non sempre sono conseguenza di comportamenti non corretti lungo la filiera produttiva. A volte sono banali casi di contaminazioni ambientali. Non meno importanti, ma certo meno inquietanti di quanto possa essere un tentativo di forzare la mano spingendo sulle performance produttive degli animali.
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Entrando nei dettagli, si scopre che in nessuno dei 30mila campioni esaminati è stata trovata traccia di ormoni. Residui di antibiotici, per lo più a causa del mancato rispetto dei tempi di sospensione, sono stati riscontrati in appena 5 casi. Una conferma, semmai ve ne fosse bisogno, del ruolo marginale della zootecnia nell’insorgenza dei fenomeni di antibiotico-resistenza che tanto preoccupano in campo medico.
Merita un cenno la segnalazione di “campioni non conformi” (così si definiscono quelli che presentano valori fuori norma) per la presenza di metalli pesanti. In questo caso la contaminazione è di carattere ambientale e proviene per lo più dagli alimenti destinati al bestiame. Interessante precisare che in tre casi si è trattato di una presenza naturale o di una contaminazione accidentale.
I dati del PNR mettono dunque a tacere quanti si accaniscono nel puntare il dito contro gli allevamenti, additandoli come luoghi ove gli animali sono “bombardati” di farmaci per accrescerne la produttività o dove si fa un uso indiscriminato di antibiotici. Stupisce tuttavia che a fronte di questi dati, che si riscontrano in modo analogo su tutta la zootecnia dell’Unione, il legislatore europeo concentri ancora la sua attenzione sull’uso degli antibiotici in campo animale. Sono recenti talune iniziative del Parlamento europeo che proponevano di vietare l’uso di antibiotici negli allevamenti. Proposte che si ritrovano, sebbene senza giungere agli estremi di un divieto, nelle strategie che animano il Green New Deal e i progetti del Farm to Fork. Iniziative che a fronte di un elevato impatto economico e sociale, rischiano di fallire il loro obiettivo sul piano ambientale e salutistico, tanto da suggerirne una profonda rivisitazione.