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Allevamenti: più sostenibili se intensivi

I numeri che legano produzione di gas serra e allevamenti riservano alcune sorprese. Chi ne versa di più in atmosfera non sono gli allevamenti intensivi di Europa o Nord America, ma quelli estensivi di pampas brasiliane, praterie argentine, pascoli di Asia e Sud Africa.

Aisha vive in Niger e sa cos’è la fame. Nel suo piatto solo “frittelle” di miglio impastate con l’acqua. Di questa vita grama Aisha ne parla con Martin Caparros, il giornalista che firma, per i tipi di Einaudi, un bel libro inchiesta dal titolo emblematico: “La Fame”. Se un mago potesse esaudire ogni tuo desiderio, chiede Caparros ad Aisha, cosa gli chiederesti? “Voglio una vacca che mi dia molto latte” risponde Aisha: “Se vendo il latte in più posso comprare quello che serve per fare più “frittelle”. Ma il mago, replica Caparros, può darti qualunque cosa, tutto quello che vuoi. In un sussurro, risponde Aisha, “Due vacche, così non avrò fame mai più.”

Il libro di Caparros è uscito nel 2015. E la fame è ancora lì che miete vittime. Lo sanno al Cefa, Ong bolognese che della lotta alla fame ha fatto una delle sue missioni. E quasi avesse preso spunto dalla storia di Aisha, ha lanciato una campagna per donare una vacca gravida a popolazioni alle prese con la fame. Accade in Mozambico con il progetto Afric Hand project. Né Aisha, né il Cefa si preoccupano delle emissioni gassose di queste vacche. E nel loro caso è giusto così. La fame va sconfitta. Punto.

Dove la fame non c’è possiamo e dobbiamo invece preoccuparci dei gas serra, come metano, protossido d’azoto e anidride carbonica, anche di quelli prodotti dai bovini e che derivano dalle fermentazioni che avvengono nel loro tratto digerente e grazie alle quali questi animali sono capaci di trasformare un indigeribile filo d’erba in carne e latte. Ma quanto dobbiamo preoccuparci? E quali sono le reali responsabilità degli allevamenti alla formazione dei gas serra?

Iniziamo prendendo in considerazione le fonti di metano. Secondo A.R. Mosier  il 30% delle emissioni sono di origine naturale (le paludi, i mari e molto altro, persino le termiti), mentre il rimanente 70% è di origine antropica, cioè conseguenza delle attività dell’uomo. Circa il 14% di queste emissioni proviene dagli allevamenti di bovini: così affermano alcune ricerche riferite dalla Fao.  Per fare questi calcoli si utilizza come metro di misura la produzione di CO2 (anidride carbonica), anche questo fra i gas a effetto serra. In Italia, come vedremo, questi valori però si riducono e di molto.

Osservare i “numeri” che legano produzione di gas serra e allevamenti riserva alcune sorprese. Chi “versa” più gas in atmosfera non sono gli allevamenti intensivi dell’Europa o del Nord America, bensì quelli estensivi delle pampas brasiliane, delle praterie argentine, dei pascoli del Sud Africa e dell’Asia. Come mai? Molte le motivazioni, alcune di una certa complessità tecnica.

Provo a spiegarlo, semplificando tanto da inorridire gli “esperti”. Nel rumine, uno degli stomaci dei bovini, i vegetali divengono cibo per i batteri che lo abitano. Un ambiente caldo, umido e privo di aria dove possono moltiplicarsi a dismisura. Ognuno di questi batteri sintetizza proteine in base al proprio Dna. Dall’azoto non proteico e addirittura non organico (l’ammoniaca ad esempio) si forma proteina di altissimo valore biologico. Ed è di questa proteina batterica che si alimenta il bovino (o la pecora, o il cammello, o il bufalo e ogni ruminante). Chi si intende di alimentazione animale giunge ad affermare che non serve nutrire i bovini, è sufficiente alimentare i batteri del rumine.

Da questo lavoro di miliardi di microrganismi si formano però alcuni gas. Uno di questi è il metano. Già, ma quanto? Fatto pari a cento le emissioni di gas serra del Belpaese, l’agricoltura italiana ne emette nel suo insieme il 7%. Di questo sette percento, si legge in una ricerca pubblicata dal centro ricerche produzioni animali (CRPA), che a sua volta cita come fonte Ispra, il 2,2% deriva dalle fermentazioni enteriche degli animali. Davvero poco. Non per questo il problema va sottovalutato.

Ecco allora che il mondo della ricerca studia da tempo come ridurre le emissioni gassose degli allevamenti. Per quelle derivanti dalle deiezioni la soluzione è relativamente semplice. È sufficiente utilizzarle negli impianti che producono biogas, poi utilizzato a fini energetici. Per le fermentazioni ruminali bisogna intervenire alla “fonte”, ovvero nel luogo di produzione, cioè rumine e tratto digerente. Già lo si fa con l’alimentazione, ottenendo al contempo una migliore efficienza nutritiva degli alimenti. Risultato, meno gas serra in atmosfera e migliori prestazioni produttive degli animali. Anche la genetica può venire in aiuto, selezionando animali che hanno maggiore efficienza nell’utilizzo degli alimenti. Ma richiede tempo.

In tempi più rapidi è con una maggiore efficienza del “sistema allevamento” che si ottiene una decisa riduzione delle emissioni. Oggi, con la metà degli animali, si hanno le stesse quantità di latte e di carne che si producevano in Italia venti e più anni fa. Metà animali e metà emissioni rispetto ad allora. Scopriamo così che la riduzione delle emissioni si ottiene negli allevamenti confinati, generalmente definiti intensivi, come la maggior parte di quelli italiani. Ed ecco spiegato perché in Italia i valori dei gas serra di origine zootecnica sono inferiori a quelli evidenziati dalla Fao. Non facciamo confusione, quindi: allevamento intensivo significa rispetto del benessere animale, dell’ambiente e dell’allevatore. Non altro.

 

Giornalista professionista, laureato in medicina veterinaria, già direttore responsabile di riviste dedicate alla zootecnia e redattore capo di periodici del settore agricolo, ha ricoperto incarichi di coordinamento in imprese editoriali. Autore di libri sull'allevamento degli animali, è impegnato nella divulgazione di temi tecnici, politici ed economici di interesse per il settore zootecnico.