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Allevamenti intensivi, baluardo del benessere animale

Gli allevamenti intensivi, ossia protetti, sono una barriera alla diffusione di malattie come la peste suina africana e l’influenza aviaria: il contrario di ciò che l’instancabile propaganda animalista vorrebbe farci credere.

Prima, sul finire dello scorso anno, i casi di influenza aviaria che hanno colpito alcuni allevamenti avicoli fra Lombardia e Veneto. Poi, a inizio del nuovo anno, la peste suina africana al confine fra Piemonte e Liguria. Nel primo caso, milioni di animali sacrificati per contenere la malattia ed evitarne il diffondersi ulteriore. Nel secondo, il virus è isolato al momento solo nei cinghiali, ma con il timore di un suo possibile ingresso negli allevamenti, che si tradurrebbe in una catastrofe per tutta la filiera dei suini.

Prima di andare oltre, è necessario ricordare che la peste suina africana non riguarda in alcun modo l’uomo, ma solo gli animali. Pressoché analoghe considerazioni per l’influenza aviaria, che pur potendo raramente interessare l’uomo, non si trasmette con le carni avicole, peraltro da consumare sempre dopo cottura.

C’è chi ama far credere che questo rincorrersi di allarmi sanitari negli allevamenti sia colpa dell’elevata concentrazione di animali che si realizza nei cosiddetti “allevamenti intensivi”. Ma è vero il contrario e vediamo perché.

Partiamo dall’influenza aviaria, malattia che può essere sostenuta da diversi ceppi virali, alcuni dei quali ad alta patogenicità. Quando uno di questi virus riesce a superare le difese di biosicurezza degli allevamenti iniziano i guai. Il virus passa rapidamente da un animale all’altro e non c’è cura che tenga. La mortalità è elevata, la produzione compromessa, il proseguimento delle attività impossibile.

La #PesteSuinaAfricana riguarda solo solo gli #animali e non l’uomo. Come l’#InfluenzaAviaria, che pur potendo raramente interessare l’uomo, non si trasmette con le #CarniAvicole. Condividi il Tweet

Draconiane le misure per debellare la malattia. Nelle zone infette si rende indispensabile sacrificare gli animali e delimitare un perimetro di molti chilometri, dove tutte le attività sono sospese. Non si possono vendere animali e nemmeno acquistarne, salvo permessi speciali e sotto stretta sorveglianza dei servizi veterinari. Solo dopo aver accertato l’assenza del virus per un congruo numero di settimane le attività potranno lentamente riprendere.

Fra le prime misure che in questi casi vengono adottate in via preventiva, quando si riscontrano casi positivi nella fauna selvatica, c’è quella di vietare gli allevamenti all’aperto. Perché il virus dell’influenza aviaria viaggia insieme agli uccelli selvatici e grazie ai migratori riesce a spostarsi anche per centinaia di chilometri. Poi, una volta arrivato, usa ogni mezzo per spostarsi da un allevamento all’altro, aiutato com’è da una grande capacità di resistenza nell’ambiente esterno.

Durante la stagione fredda può resistere per oltre 30 giorni in favorevoli condizioni di umidità. È così che, a volte, riesce a superare anche le pur severe misure di biosicurezza normalmente in uso negli allevamenti.

Prima che in Italia è accaduto in altri paesi a noi vicini, come la Francia e la Germania, e ancor prima in molti paesi di Est e Nord Europa.

Influenza #aviaria: con casi positivi nella #FaunaSelvatica si vietano gli #allevamenti all’aperto, perché questo #virus viaggia con agli #UccelliSelvatici. Condividi il Tweet

Non molto diverso è quanto si verifica con la peste suina africana. Anche in questo caso siamo di fronte a un virus che non lascia scampo e causa elevata mortalità. Gli “untori” sono ancora una volta dei selvatici, non più gli uccelli, ma i cinghiali, che di questo virus sono un serbatoio naturale.

L’aver trovato molti esemplari deceduti a causa del virus ha messo in allarme tutta la filiera delle carni suine. Se il virus dovesse entrare in un allevamento, il blocco delle attività potrebbe arrivare a compromettere l’export di salumi e insaccati. Come nel caso degli avicoli, fra le prime misure per fermare il virus è scattato il divieto di allevare suini all’aperto. Costringendo all’abbattimento di quelli a sistema brado e semibrado. Troppo elevate le probabilità di contatti con cinghiali potenzialmente infetti.

Queste due emergenze sanitarie hanno lo stesso denominatore: l’allevamento all’aperto, nelle sue diverse espressioni. Gli allevamenti al chiuso, meglio noti come allevamenti intensivi, dove gli animali sono meglio protetti dall’aggressione di patogeni, dimostrano così tutta la loro efficacia nel preservare la salute degli stessi animali. Se ne potrebbe dedurre, provocatoriamente, che solo gli allevamenti intensivi possono assicurare agli animali condizioni di benessere, essendo la salute un prerequisito della stessa.

#PesteSuinaAfricana: negli #AllevamentiIntensivi, cioè al chiuso, gli #animali sono protetti meglio dai #patogeni. Ma se il #virus entra in un #allevamento, il blocco delle attività è immediato. Condividi il Tweet

Un’ulteriore dimostrazione, comunque, che gli allevamenti intensivi rappresentano un baluardo al benessere animale e non il contrario. Ed è grazie a loro e alle immediate misure messe in atto dai servizi veterinari se si è potuto impedire ai virus dell’influenza aviaria e della peste suina africana di espandersi a macchia d’olio. Compromettendo settori che, all’importanza economica e strategica, associano una forte valenza sociale.

 

 

Giornalista professionista, laureato in medicina veterinaria, già direttore responsabile di riviste dedicate alla zootecnia e redattore capo di periodici del settore agricolo, ha ricoperto incarichi di coordinamento in imprese editoriali. Autore di libri sull'allevamento degli animali, è impegnato nella divulgazione di temi tecnici, politici ed economici di interesse per il settore zootecnico.