Allevamenti avicoli “senza antibiotici”? Possibile, ma non indispensabile
Tra gli allarmismi più frequenti quando si vogliono attaccare la produzione e il consumo di carne spicca quello delle possibili conseguenze sulla salute pubblica dell’uso di antibiotici negli allevamenti zootecnici. Anche in questo caso, però, bisogna stare attenti a distinguere tra informazioni vere e false.
Generalmente, chi mette in circolazione falsi miti e disinformazione su questi temi fa leva sulle paure delle persone paventando il rischio dei residui che potrebbero restare nelle carni, nel latte o nelle uova, ma anche e soprattutto di un eventuale sviluppo della farmaco-resistenza batterica, con tutti gli effetti sull’ambiente che ne potrebbero derivare. Il tutto, però, tralasciando le parti più interessanti del discorso, ovvero quelle che demoliscono i pregiudizi che si vogliono diffondere.
Questi attacchi riguardano un po’ tutte le produzioni zootecniche, ma forse quella più colpita è la filiera avicola. Facciamo dunque ben presente una cosa: proprio per evitare che si presentino problemi legati ai due fenomeni di cui sopra, molti allevatori hanno applicato dei disciplinari di produzione molto rigorosi che prevedono l’utilizzazione di razze di polli maggiormente resistenti alle malattie infettive e, soprattutto, una nuova riorganizzazione e a volte ristrutturazione degli allevamenti. Questi procedimenti, in alcuni casi, hanno portato alla possibilità di allevare effettivamente polli e faraone senza l’uso di antibiotici.
Con una maggiore attenzione alle biosicurezze è più facile creare delle vere e proprie “barriere” per l’ingresso di microrganismi patogeni negli allevamenti. Un aiuto molto importante è arrivato anche dall’impiego di probiotici e di prebiotici. Questi, sostanzialmente, favoriscono lo sviluppo di una flora microbica intestinale in cui i microrganismi “saprofiti” prevalgono nettamente su quelli patogeni e, quindi, costituiscono un “ostacolo” alla diffusione delle malattie.
Come accennato, l’informazione “allevato senza uso di antibiotici” può essere riportata in etichetta solo se gli allevamenti aderiscono ad un “disciplinare di etichettatura”, approvato dal Ministero dell’Agricoltura e che prevede un organismo terzo di controllo a garanzia del mancato impego di antibiotici fin dalla fase di incubazione delle uova da cui schiuderanno i pulcini.
Nelle etichette dei prodotti l’indicazione “allevato senza uso di antibiotici” è riportata come volontaria, ma l’utilizzo di informazioni volontarie per le carni di pollame obbliga all’adozione di un disciplinare autorizzato, a rispettarne i requisiti, a sottoporsi ad un piano di autocontrollo verificato dall’Organizzazione responsabile del disciplinare e ad un piano di controllo applicato dall’Organismo di controllo. Su tutto vigila il Ministero dell’Agricoltura e, quindi, l’Ispettorato Centrale per la tutela della Qualità e la Repressioni Frodi dei prodotti alimentari (ICQRF).
L’impiego degli antibiotici, in passato, era di gran lunga superiore a quello attuale, in qualunque tipo di allevamento. Proprio per questo motivo nel corso degli ultimi anni sono sorti numerosi equivoci che è bene chiarire. Facciamo quindi un breve passo indietro, in modo da capire o conoscere prima quanto è avvenuto negli ultimi decenni.
Negli anni ‘50 si scoprì che, somministrando ad animali da allevamento piccole quantità di antibiotici nei mangimi, si ottenevano migliori rese zootecniche. Le Autorità preposte sia italiane sia comunitarie emanarono allora delle leggi che, di fatto, consentivano l’uso di alcuni antibiotici, di modesta attività terapeutica, come additivi dei mangimi. Vennero distinti dagli antibiotici più efficaci, che potevano essere usati a scopo terapeutico e con una ricetta veterinaria.
Successivamente ci si rese conto che gli antibiotici a basso dosaggio e di modesta attività terapeutica, pur non ponendo seri problemi di residui, favorivano l’insorgenza della farmaco-resistenza. Proprio sulla base di queste osservazioni un regolamento comunitario vietò, a partire dal 1° gennaio 2006, l’uso degli antibiotici “promotori di crescita” e di lasciare la possibilità di impiego degli antibiotici esclusivamente a scopo terapeutico.
A distanza di oltre 10 anni dalla scelta di limitare l’uso di antibiotici ai soli casi in cui fossero necessari a scopo terapeutico, è evidente che per buona parte del pubblico regni ancora un certo livello di disinformazione. Ma la situazione attuale è molto chiara: gli antibiotici che si possono impiegare negli allevamenti sono soltanto quelli iscritti in liste positive definite dall’Agenzia Europea per il Farmaco (EMA) e sotto forma di “specialità” medicinali registrate dalle Autorità Sanitarie Nazionali.
L’iscrizione di ogni singolo antibiotico in una lista positiva prevede la definizione di un Limite Massimo di Residuo (MRL), valutato sulla base di una documentazione scientifica che comprende informazioni sull’efficacia e la sicurezza per gli animali, l’ambiente e i consumatori che possono alimentarsi con carni, uova o latte degli animali sottoposti ai trattamenti terapeutici. Informazioni analoghe vengono richieste per la registrazione delle singole specialità medicinali.
In pratica, ad oggi in Italia e così nel resto dell’Unione europea l’uso di antibiotici può avvenire soltanto in situazione di totale sicurezza, che garantisce l’assenza di residui potenzialmente pericolosi e limita fortemente il rischio di induzione di farmaco-resistenza.
D’altra parte gli animali da allevamento, come tutti gli esseri viventi, sono esposti alle malattie infettive e pensare di evitare sempre e comunque l’uso di farmaci in grado di combatterli significa attentare al benessere degli animali stessi, accrescere il rischio di diffusione di malattie infettive, oltre che compromettere la redditività delle produzioni zootecniche.
La situazione attuale vede quindi degli allevamenti di polli che non fanno uso di antibiotici in nessun modo e altri allevamenti che li impiegano soltanto quando effettivamente necessari. In ogni caso il consumo totale di antibiotici negli allevamenti di polli è tacchino è calato di circa il 64% nell’arco degli ultimi cinque anni.
A questo punto può dunque sorge una domanda: come deve comportarsi il cittadino negli acquisti? Se si compra un pollo a cui non sono mai stati somministrati antibiotici, ovviamente, ci si rende conto che a monte ci sono state condizioni di allevamento che sono andati oltre gli obblighi di legge per il rispetto del benessere animale e dell’ambiente. Allo stesso modo, però, anche nel caso in cui ci sia stato un trattamento con antibiotici, si è consapevoli e sicuri del fatto che le norme di base sono state rispettate e non c’è nessun pericolo per i consumatori, perché nelle carni non ci sono residui degli stessi.
E nel caso remoto dovessero esserci delle tracce di microrganismi farmacoresistenti, dal momento che nessun alimento fresco può essere sterile? Anche in questo caso nessun problema. La carne di pollo viene sempre consumata cotta e le temperature di cottura sono sufficienti a uccidere tutti i microrganismi eventualmente presenti, farmacoresistenti o meno.
In conclusione, quindi, in Italia la carne di pollo è sicura in ogni caso. Ciononostante la filiera avicola italiana è seriamente impegnata in un costante sforzo di miglioramento. Tanto che ogni anno vengono premiati gli allevatori che si impegnano maggiormente nel rendere i propri allevamenti “sostenibili”. Un circolo virtuoso che va comunque incentivato, e che può essere uno stimolo anche per gli altri allevatori.
Agostino Macrì
Laureato in Scienze Biologiche e in Medicina Veterinaria, ha collaborato per oltre 40 anni con l’Istituto Superiore di Sanità. Ha tenuto corsi e seminari in diverse università ed è attualmente professore di Ispezione degli Alimenti e Analisi dei Rischi all’Università Campus Biomedico di Roma. Fa o ha fa fatto parte di numerosi Comitati tecnici e scientifici, sia nazionali – Ministeri della Sanità, dell’Agricoltura, e dell’Ambiente, che internazionali – Commissione europea, OIE, Consiglio d’Europa, OCSE, Codex Alimentarius, Agenzia Europea per il farmaco, EFSA, FAO, OMS. Ha pubblicato circa 250 lavori scientifici.