Cresce l’avicoltura italiana
Una filiera ad alta integrazione verticale e la capacità di interpretare il mutamento dei gusti dei consumatori. Sono questi, secondo uno studio realizzato da Nomisma per Unaitalia, l’Unione nazionale filiere agroalimentari delle carni e delle uova, i principali fattori di successo dell’avicoltura italiana. Un comparto, quello della produzione di uova e carni di pollo e tacchino, dove si osservano dati positivi, in controtendenza rispetto al resto dell’industria della carne. Mentre infatti negli ultimi anni, con la contrazione del potere d’acquisto per la crisi e la diffusione di diete vegetariane la spesa delle famiglie per carni e derivati è diminuita del 7,5% a valori costanti, tra il 2009 e il 2015 nel comparto avicolo sono cresciuti i consumi (da 18,6 kg pro-capite a 20,2 kg), la produzione (+9%), la ricchezza prodotta dagli allevamenti (+27%) e quella prodotta dalla trasformazione (+6,2%).
Il settore oggi conta circa 18.500 allevamenti che impiegano 38.500 addetti, con produzione e occupazione in gran parte concentrati in 6.000 allevamenti professionali con almeno 250 capi, cui si affiancano numerose altre piccole imprese di tipo rurale, diffuse su tutto il territorio nazionale. Nella trasformazione sono attive 1.600 aziende agroindustriali con 25.500 lavoratori diretti. L’alto grado di integrazione della filiera, spiegano da Nomisma, porta benefici a tutti gli attori: gli allevatori “possono beneficiare di garanzie non sempre presenti in agricoltura: un rapporto di collaborazione stabile nel tempo, un qualificato supporto tecnico-sanitario e, soprattutto, una maggior tutela da condizioni di mercato perturbate che colpiscono altri settori agricoli”, mentre le imprese di macellazione, preparazione della carne e lavorazione delle uova “possono contare su una base produttiva stabile con la quale investire per rispondere alle nuove esigenze della domanda”.
Un mercato in evoluzione a cui l’industria avicola ha saputo rispondere con un’offerta di prodotti lavorati al passo con le nuove esigenze: “Negli anni ‘60 e ‘70, gli italiani consumavano quasi esclusivamente pollo intero, mentre a partire dagli anni ‘80 le preferenze si sono spostate sempre di più verso il pollo in parti (che nel 2014 ha rappresentato il 61% dei consumi di carne di pollo) e, parallelamente, verso quello lavorato e ad alto contenuto di servizio, che nel 2014 ha raggiunto il 28% del totale dei consumi di categoria, contro solo l’11% relativo al prodotto intero”, si legge nel rapporto di Nomisma.
Oggi all’Italia fa capo il 9% della produzione europea di carni di pollo e tacchino. Il nostro Paese, sesto in Europa per volumi con 1,3 milioni di tonnellate di carne prodotte nel 2014, è in grado di coprire ampiamente la domanda interna con un grado di auto-approvvigionamento del 106% nel 2015, contro il 65% della carne suina e il 57% di quella bovina.
La maggior parte della produzione viene consumata in Italia, con meno di 200 mila tonnellate esportate e meno di 100 mila importate, mentre cresce la pressione da parte dei concorrenti stranieri: “È evidente il potenziale rischio di concorrenza da parte di Paesi, come la Polonia, le cui esportazioni sono più che raddoppiate negli ultimi anni (+124% rispetto al 2009). Questo Paese, grazie anche a costi di produzione inferiori rispetto a quelli della filiera italiana e dei principali competitor, può, infatti, proporsi sui mercati internazionali con un prezzo particolarmente competitivo”, avvertono da Nomisma, citando anche le insidie commerciali in arrivo dagli stati extraeuropei, dal Brasile agli Usa.
Fonte: La Repubblica