Perché la carne ha un maggiore impatto sull’ambiente?
La catena di produzione della carne è piuttosto articolata e per questo motivo gli impatti, se confrontati a parità di peso, sono generalmente tra i più elevati nel comparto alimentare: la spiegazione più semplice e intuitiva sta nel fatto che, a differenza dei prodotti di origine vegetale, è necessario un “doppio passaggio”: prima si producono gli alimenti, poi si avvia il processo di conversione proteica durante l’allevamento degli animali.
Come si è già visto, le fasi più impattanti sono quelle agricole e dell’allevamento. Ma quali sono gli aspetti più critici? Il primo da considerare è quello legato alla coltivazione dei foraggi: ovviamente più si fa ricorso ad alimenti non coltivati (paglia o erba), o a scarti dell’industria alimentare, più si riesce a limitare l’impatto di questa fase.
Altro aspetto molto rilevante è quello legato alle deiezioni (letame e liquami), che costituiscono una fonte di inquinamento soprattutto per l’aria (emissioni di anidride carbonica, metano e ammoniaca), per il terreno e le falde a causa dell’alto contenuto di azoto.
Gli impatti delle fasi di trasformazione, dovuti principalmente ai consumi di energia e acqua, rappresentano il 10-20% del totale. Questi aspetti valgono genericamente per tutte le carni. Nel caso delle filiere bovine, in particolare, occorre considerare due ulteriori fattori: l’impatto per la gestione della fattrice, che viene allevata unicamente allo scopo di partorire vitelli con un ritmo medio di uno all’anno, e le fermentazioni enteriche (costituite in buona parte da metano) tipiche del metabolismo dei ruminanti.
Come per tutti gli altri alimenti, l’impatto viene calcolato in modo relativamente semplice: si mettono in relazione i consumi (e le altre forme di inquinamento) con la quantità di carne prodotta. Per questo motivo il prodotto a minor impatto ambientale lo si ottiene quando l’animale raggiunge nel minor tempo possibile, e quindi con la minore quantità di cibo e le minori deiezioni, il peso ritenuto idoneo per la macellazione.
Questo apre uno dei dilemmi più articolati del mondo del cibo: meglio un allevamento intensivo o uno con gli animali al pascolo? Questo confronto in effetti può essere affrontato da differenti punti di vista: benessere animale, sicurezza, qualità e gusto della carne, impatti ambientali.
Concentrando l’attenzione unicamente sul tema ambientale, è chiaro che l’intensificazione permetterebbe di ottenere impatti minori: questo, però, è uno del classici casi in cui la sostenibilità non può essere solo ambientale, ma deve essere ricercata come il giusto equilibrio fra modelli diversi.
Trovare la soluzione ottimale non è affatto semplice, perché ci sono molti fattori da tenere in considerazione: in primis il tipo di animale di cui si parla. Nel caso del pollo (o degli avicoli in generale), per esempio, quasi tutti i produttori hanno la linea di prodotto “allevata a terra” che, a fronte di un maggior prezzo di vendita, posiziona il prodotto su una specifica fascia a di mercato.
Nel caso del bovino, invece, i modelli di produzione sono più omogenei e con questi le caratteristiche dei prodotti: il sistema italiano, per esempio, è uno di quelli che presenta molti spunti di buone pratiche sostenibili, grazie alla lunga tradizione e alla maggiore cultura del cibo dei consumatori.
Basti pensare che in Italia le filiere delle carni sono tra le più controllate in Europa (e nel mondo) e i protocolli di allevamento sono tra i più rigorosi. Negli Stati Uniti, per esempio, viene consentito l’utilizzo dei promotori per la crescita (ormoni): pratica vietata sia in Italia sia in Europa.
Testo estratto da “Il cibo perfetto” (M. Marino e C.A. Pratesi – Edizioni Ambiente)