Dire no ai cibi artificiali non è retroguardia
Dire no ai cibi artificiali non è una battaglia di retroguardia, non è di destra né di sinistra, ma è un impegno per il progresso delle scienze e tecnologie agricole e zootecniche al servizio degli interessi dell’umanità e non di capitali di ventura travestiti da benefattori.
Due questioni di principio emergono dalle critiche che i sostenitori (e in particolare i produttori) dei succedanei vegetali o artificiali alla carne muovono alla scelta italiana di vietare le denominazioni dei prodotti carnei per i primi e la produzione dei secondi: a) è lecito chiamare prodotti di origine vegetale con nomi che richiamano a quelli ottenuti da carne naturale? b) è vero che la scienza non si può fermare? Pubblichiamo una riflessione del Professor Pulina pubblicata di recente su La Nuova Sardegna.
È legittimo usare in commercio una certa denominazione di prodotto per indicare una cosa diversa?
Vediamo il primo punto, ovvero se sia legittimo usare in commercio una certa denominazione di prodotto per indicare una cosa diversa. Nel caso del cibo, le denominazioni commerciali hanno il senso di evitare brogli e sofisticazioni anche qualora due diversi prodotti denominati nello stesso modo siano riconoscibili dai consumatori, per cui vendere vino (con questo nome) che non sia ottenuto dal mosto di uva non è consentito, così come non lo è per il sidro che non sia di mele o il formaggio che non è di latte, o il latte che non derivi da un mammifero.
Il fatto che in etichetta la macro-composizione (grassi, proteine, ecc…) di hamburger di carne e dei loro sostituti vegetali sia simile, nasconde l’evidenza analitica per cui oltre l’80% delle migliaia di metaboliti nutrizionalmente rilevanti che compongono questi cibi sono diversi. Chi sceglie per gusto o ideologia, non certo per salute, di mangiare polpette vegetali è liberissimo di farlo e (forse) le riconoscerà per quello che realmente sono: una miscela di composti (a volte oltre 30), additivati e insaporiti per ingannare il gusto e assomigliare il più possibile al prodotto originale a base di carne.
Insomma, si tratta di veri e propri falsi, nel senso di repliche imperfette, della polpetta di carne originale denominata Hamburger (ma potremmo estendere questo concetto anche alle imitazioni del prosciutto, del salame, dello speck, oggi, e della pizza da idrolisati del legno o del pane di farine batteriche, domani). È anche vero che le nostre nonne, in tempi (poveri) di penuria di carne, tentavano di ingannarci con “polpettoni vegetali” contrabbandandoli per succulenti piatti a base di manzo, maiale o pollo. Ma l’inevitabile obiezione di noi nipoti era: “Nonna, ma questa non è carne!”
La scienza non si può fermare?
Sul secondo punto (la scienza non si può fermare) è in gioco il principio di responsabilità che impone di interrogarsi su ciò che si sta studiando e valutarne le necessarie moratorie qualora gli sviluppi tecnologici (che non sono mai neutri come si cerca di contrabbandare da più parti) conseguenti mettano a serio repentaglio salute umana e ambientale, integrità fisica e morale umane e senso del progresso come definito dalla dichiarazione dei diritti universali dell’ONU.
Ebbene, i cibi artificiali ottenuti esclusivamente con processi industriali non rispondono a nessuno dei suddetti principi: è tutto da dimostrare che non abbiano conseguenze sulla salute, mentre è provato che hanno impatti ambientali da 10 a 50 volte superiori a quelli naturali (nel caso della carne rossa); scollegano l’umanità dall’agricoltura e dalla pesca quali uniche fonti di approvvigionamento alimentare, disumanizzando uno dei processi fondativi delle civiltà come noi le conosciamo, con ripercussioni devastanti per le aree più povere del pianeta; con il fine di favorire sistemi speculativi e di concentrazione del potere del cibo in poche già ricchissime mani, sottraggono al progresso diffuso delle agro-tecnologie (che hanno dimostrato negli ultimi 70 anni di poter sfamare una popolazione cresciuta di oltre 5 miliari di individui) il compito di alimentare il mondo in modo sostenibile.
Sostenere il DDL che dice no ai cibi artefatti o artificiali non è una battaglia di retroguardia, non è di destra né di sinistra, ma è un impegno per il progresso delle scienze e tecnologie agricole e zootecniche al servizio degli interessi dell’umanità e non di capitali di ventura travestiti ad arte da benefattori.
Fonte: La Nuova Sardegna