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L’inutilità della carne artificiale

La carne artificiale salverà davvero il mondo, anche in vista di una ulteriore crescita della popolazione umana? Facciamo il punto della situazione.

Siamo arrivati a otto miliardi. Tante sono le persone sulla Terra. Un numero enorme se lo si confronta a quello del 1950, nemmeno un secolo fa, quando la popolazione mondiale si fermava ad appena 2,5 miliardi di persone. E fra poco, trenta anni o forse meno, arriveremo a quota dieci miliardi. Ci sarà cibo per tutti? Questo uno dei primi interrogativi che la crescita demografica ci mette davanti. Negli anni passati l’agricoltura è stata in grado di rispondere all’aumento della domanda di cibo. Merito anche delle innovazioni tecnologiche e del costante aggiornamento dei metodi di coltivazione e allevamento.

Uguale risultato sarà possibile anche in futuro? Già ora quanto si produce nel mondo sarebbe in grado di sfamare gli abitanti del pianeta di oggi e di domani, ma bisogna fare i conti con gli sprechi e con la distribuzione del cibo a livello globale, che alterna aree dove ci sono ampie risorse ad altre dove la sicurezza alimentare è un traguardo lontano. C’è dunque molto da fare e non sarà semplice. Difficoltà alle quali si aggiunge la complessità dell’impatto ambientale che un aumento delle produzioni agricole e zootecniche potrebbe comportare.

Quando si parla di ambiente è intuibile quanto sia forte il legame positivo con le attività dei campi, essendo agricoltori e allevatori i primi ad averne a cuore la tutela. Inutile ricordare che la loro attività (e il loro reddito) è intimamente legato al rispetto della natura e dell’ambiente. Eppure, c’è un’insistente narrativa che vorrebbe imputare ad agricoltura e allevamenti le maggiori responsabilità in quanto a emissioni di gas climalteranti, più che industrie e trasporti messi insieme. Una menzogna, ma a forza di ripeterla in molti ci credono. Tanto da salutare con entusiasmo la nascita di prodotti di laboratorio che tentano di sostituire carne e allevamenti.

La #CarneArtificiale non salverà il mondo, che sia una finta bistecca #PlantBased o derivata da cellule coltivate in #bioreattori dalle quale poi ricavare finta #carne, additivata e iper-processata. Condividi il Tweet

Non la finta bistecca “plant-based” che strizza l’occhio al veganesimo, realizzata mescolando legumi, aromi, addensanti e vari additivi. Che peraltro stenta a farsi spazio nelle preferenze dei consumatori. Ma proteine realizzate moltiplicando cellule coltivate in bioreattori dalle quale poi ricavare finta carne, variamente additivata e iper-processata. Non c’è da stupirsi se queste ricerche richiamano investimenti miliardari e trovano convinti sostenitori, anche fra le istituzioni. In un mondo sempre più popolato il “potere” del cibo potrebbe diventare persino più appetibile (per stare in tema) di quello delle armi.

Seguendo queste logiche, si vorrebbe convertire l’agricoltura tradizionale in un giardino improduttivo, come ipotizzano talune strategie scaturite dal legislatore europeo e sintetizzate nella strategia Farm to Fork. Più realisticamente, questi progetti sono il risultato distorto di una visione dell’agricoltura intrisa di ideologia fintamente ambientalista e di una interpretazione bucolica, per non dire “romantica”, della stessa agricoltura.

Ma c’è, per fortuna, chi reagisce e avvisa che la strada è un’altra, quella di un’agricoltura e di allevamenti produttivi e sostenibili, quando sostenibilità è quella ambientale, sociale ed economica. Come già la si realizza in molti Paesi, Italia in testa, con l’agricoltura e la zootecnia di precisione, ottimizzando ogni risorsa, limitando gli sprechi.

A dire che la strada della carne non è il laboratorio ma sono i campi e le stalle è tutta la filiera produttiva, dalle organizzazioni degli agricoltori alle istituzioni che hanno responsabilità in questo campo, le cui voci si sono levate alte per denunciare il pericolo del cibo prodotto in laboratorio, in mano a pochi protagonisti. A dare sostegno e credibilità all’appello di agricoltori e allevatori sono i tanti ricercatori e scienziati che si occupano di questa materia. Sono le loro ricerche a dimostrare, numeri alla mano, l’invarianza ambientale delle formule di allevamento sostenibile, più diffuse di quanto si creda. Per non parlare della tutela dell’ambiente che deriva dalla presenza dell’uomo in talune aree marginali, dove l’allevamento è una delle poche, se non l’unica, fonte di sostentamento.

Il #cibo prodotto nel mondo sarebbe in grado di sfamare tutti gli abitanti del pianeta, ma bisogna fare i conti con gli #sprechi e le #disuguaglianze a livello globale. Condividi il Tweet

A queste voci si aggiunge quella di Slow Food, che ha affidato a un recente comunicato il compito di denunciare il rischio che la carne si trasformi in una commodity come tante altre, “priva di qualunque significato culturale, del legame con i territori e con le comunità che ci vivono, con i loro saperi e tradizioni”, come afferma Barbara Nappini, che di Slow Food è presidente. Impossibile non essere d’accordo, ma bisogna riporre fiducia nell’intelligenza dei consumatori, che già hanno dimostrato di non farsi blandire più del dovuto dai miraggi del “cibo del futuro”, che al momento è solo un pozzo di San Patrizio dove gli investitori sprecano i loro soldi.

Giornalista professionista, laureato in medicina veterinaria, già direttore responsabile di riviste dedicate alla zootecnia e redattore capo di periodici del settore agricolo, ha ricoperto incarichi di coordinamento in imprese editoriali. Autore di libri sull'allevamento degli animali, è impegnato nella divulgazione di temi tecnici, politici ed economici di interesse per il settore zootecnico.