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Il diritto alla carne (di qualità)

Sorpresa: ai giovani piace la carne, soprattutto se è “made in Italy”. Lo conferma una recente indagine firmata da SWG: 57 giovani su cento di 18 – 34 anni inseriscono prodotti di origine animale nella loro dieta almeno 4 volte alla settimana.

Sorpresa: ai giovani piace la carne, soprattutto se è “made in Italy. Lo conferma una recente indagine firmata da SWG, società nota nel campo dei sondaggi, e promossa da Aisa, l’associazione che riunisce le industrie della salute animale. I dati confermano che 57 giovani su cento di età fra i 18 e i 34 anni inseriscono prodotti di origine animale nella loro dieta almeno 4 volte alla settimana, e comunque in equilibrio con gli altri ingredienti, in linea con i suggerimenti della dieta mediterranea.

Il sondaggio SWG  conferma un altro importante aspetto, l’attenzione del consumatore (71%) alla provenienza della carne. Pronti a dare preferenza a ciò che è stato allevato e trasformato nel nostro Paese. C’è consapevolezza in queste scelte della maggiore sicurezza e qualità di ciò che esce dai nostri allevamenti, frutto della professionalità degli allevatori e di tutta la filiera di trasformazione, garantita dall’efficienza dei nostri servizi veterinari, che controllano, verificano e certificano ogni passaggio del percorso della carne, dall’origine sino al suo arrivo nel piatto.

Gli ottimi risultati del lavoro dei veterinari è frutto di una scelta italiana che sin dal primo momento ha voluto privilegiare gli aspetti salutistici a quelli di mercato. Anche per questo la medicina veterinaria fa capo al Ministero della Salute, piuttosto che al dicastero agricolo, come accade nella maggior parte degli altri paesi europei.

Ai #giovani piace la #carne: secondo un’indagine #SWG, 57 su cento dai 18 ai 34 anni inseriscono prodotti di origine animale nella #dieta almeno 4 volte alla settimana. Condividi il Tweet

Una scelta vincente anche nell’ottica del moderno approccio verso una “salute unica”, One Health per dirla con chi ama gli anglicismi, dove uomo e animali condividono il medesimo ambiente, inteso nel senso più ampio, e di conseguenza analoghi problemi sanitari. Il tema dell’antibiotico-resistenza a taluni batteri ne è uno dei tanti possibili esempi.

Parlando di antibiotici e dei patogeni che mutano sviluppando una resistenza ai comuni antimicrobici, va ricordato il grande lavoro fatto dal mondo zootecnico, che ha portato in dieci anni a una riduzione del 45% nell’uso di antibiotici. Che quando utilizzati, nei tempi e nei modi previsti, e ovviamente sotto controllo veterinario, servono a curare malattie e a migliorare il benessere degli animali, altrimenti malati e sofferenti. Analoghi risultati, purtroppo, ancora non si registrano in medicina umana, dove ancora troppe volte l’impiego dell’antibiotico avviene in modo inappropriato, come segnalato anche da Aifa, l’Agenzia italiana per il farmaco.

Chi sul fronte della riduzione dell’impiego degli antibiotici è riuscito ancor più di altri a conseguire ottimi risultati è il comparto avicolo. Qui l’impiego di questi farmaci ha subìto un taglio drastico: meno 88% fra il 2011 e il 2020. Per chiarezza, dal 2011 al 2020 la riduzione è stata del -91% nel pollo e -82% nel tacchino, per una riduzione media complessiva del -88%. Il “segreto” di questo successo ha due fondamenti: la prevenzione e l’alto livello di biosicurezza.

Nella riduzione dell’impiego degli #antibiotici il comparto #avicolo ha registrato risultati migliori: meno 88% fra il 2011 e il 2020. Condividi il Tweet

Il primo pilastro, quello della prevenzione, si basa sul ricorso ad animali selezionati per la resistenza alle malattie e sull’immunizzazione nei confronti delle malattie avicole più diffuse e pericolose. La biosicurezza ha il suo fondamento in strutture di allevamento concepite per offrire il massimo livello di benessere possibile (le gabbie negli allevamenti di polli da carne sono solo un ricordo) e per lasciare “fuori dalla porta” i patogeni. È rara l’occasione di poter entrare in un allevamento avicolo (evitare l’ingresso di personale non addetto è una delle basi della prevenzione), ma quando ciò è necessario occorre sottoporsi a una serie di procedure, che vanno della disinfezione personale all’impiego di tute e calzari monouso. Come, per rendere l’idea, si entrasse nella sala operatoria di un ospedale.

Accompagnando alla salute degli animali un’efficiente organizzazione della filiera produttiva, il comparto avicolo è riuscito nell’impresa di raggiungere e superare l’autosufficienza, oggi al 108,8%. Unico fra i comparti della zootecnia italiana in grado di vantare questa prerogativa, l’avicoltura è così in grado di coprire interamente la domanda nazionale di carni avicole. Un vantaggio competitivo di non poco conto, se si considerano i risultati del sondaggio SWG dei quali si è detto. La preferenza del consumatore per carni di origine italiana trova così piena risposta dal settore avicolo e le etichette, dove l’origine è dichiarata, è lì a dimostrarlo.

Si può fare di più? Certo, accondiscendendo inoltre alle richieste del consumatore, che si dice sempre più attento a due criticità attribuite agli allevamenti: l’impatto ambientale e il rispetto del benessere animale. Sul fronte ambientale vengono in aiuto le tecnologie per il recupero energetico dagli scarti degli animali e l’uso di fonti rinnovabili, come pure l’impiego di alimenti che seguono un percorso di economia circolare (ad esempio l’utilizzo dei gusci di ostrica come integratori di calcio nell’alimentazione delle galline ovaiole). Non meno importante il capitolo benessere animale, con l’abbandono delle gabbie (in uso a volte solo per le ovaiole e osservando gli standard stabiliti dall’Unione europea) e con il rispetto degli spazi previsti e l’accesso in molti casi ad aree all’aperto.

Il primo pilastro per ridurre l’uso di #antibiotici è di ricorrere ad #animali selezionati per la resistenza alle malattie più diffuse e pericolose. Condividi il Tweet

Il consumatore si è detto pronto a mettere mano al portafoglio per “premiare” chi riesce a produrre carne nel rispetto di questi valori. Il mondo della produzione della carne, non solo quella avicola, è impegnato in questa direzione, a dispetto della fibrillazione dei mercati delle materie prime per l’alimentazione degli animali e dell’impennata della bolletta energetica, che sta mettendo in forse molte attività zootecniche.

Se non c’è da essere preoccupati per la disponibilità di derrate alimentari e di carne, ciò non toglie che un pericolo esiste. Prendendo in prestito la lingua inglese, lo si potrebbe chiamare “food divide”. Chi avrà disponibilità economiche potrà acquistare cibo sano, sicuro, magari italiano. Chi dovrà fare i conti per arrivare a fine mese dovrà accontentarsi di cibo importato, forse meno costoso, certamente ottenuto senza troppo guardare al benessere animale o all’impiego di farmaci. Un rischio che le politiche europee di riduzione della produzione agricola in generale e di quella zootecnica in particolare (come ipotizza il Farm to Fork) potrebbe accentuare. Chi ha responsabilità di indirizzo nelle scelte produttive, a Roma come a Bruxelles, dovrebbe tenerne conto.

Giornalista professionista, laureato in medicina veterinaria, già direttore responsabile di riviste dedicate alla zootecnia e redattore capo di periodici del settore agricolo, ha ricoperto incarichi di coordinamento in imprese editoriali. Autore di libri sull'allevamento degli animali, è impegnato nella divulgazione di temi tecnici, politici ed economici di interesse per il settore zootecnico.