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Zootecnia italiana e ambiente: una storia di successo

Scorrendo le serie storiche dell’ISTAT (ISTAT, 2016) ed elaborando i dati relativi alle produzioni zootecniche delle principali specie allevate in Italia, si scopre che la zootecnia italiana ha contribuito in modo sostanziale al soddisfacimento della crescente domanda di proteine di origine animale dell’ultimo mezzo secolo e che l’efficienza dei sistemi produttivi è aumentata in maniera spettacolare.

A partire dagli anni ’70 del secolo scorso si assiste nel nostro Paese ad una riduzione degli animali allevati, espressi in termini di Unità Bovino Adulto (UBA = 1 bovino, 1 equide, 5 suini, 7 caprini o ovini) e al contemporaneo aumento della produzione totale di proteine animali: se nel 1970 il consumo procapite era intorno ai 14 kg e la produzione per UBA era inferiore ai 60 kg/anno, a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso il consumo interno si è stabilizzato intorno ai 21 kg per abitante/anno, ma la produzione ha continuato a crescere fino a raggiungere i 120 kg di proteine per UBA/anno.

L’aumento del consumo di proteine è uno degli indicatori del miglioramento della qualità della vita raggiunto dagli italiani nell’ultimo mezzo secolo. L’attesa di vita è, infatti, aumentata costantemente con il crescere dell’aumento del consumo proteico pro-capite (ovviamente, i fattori coinvolti sono molti di più del semplice consumo di proteine animali, ma anche queste hanno contribuito al risultato); ma con l’invertirsi del trend all’inizio della seconda decade di questo secolo da 21 a 19 kg procapite), anche l’attesa di vita è rallentata.

Tutto ciò è stato possibile grazie all’intensivizzazione, che significa aumento della produttività per capo allevato, dovuta al miglioramento genetico delle razze, al perfezionamento dell’alimentazione, all’adeguamento delle strutture di produzione, alla diffusione di pratiche sanitarie più efficaci, all’automazione e all’affermarsi di modelli di gestione più integrati e funzionali. In definitiva, l’intesivizzazione dei processi zootecnici è risultata in una riduzione degli impatti ambientali per unità di prodotto.

Quanto si parla, pertanto, di “intensivizzazione sostenibile”, occorre tenere bene a mente che finora è stato proprio il processo di intensivizzazione a rendere possibile il miglioramento della sostenibilità ambientale degli allevamenti. Si dovrebbe parlare, allora, di “estensivizzazione sostenibile” in quanto questa è tutta da dimostrare sul piano teorico e pratico.

Ad esempio, nel 1950 in Italia si produceva circa la metà del latte ottenuto attualmente e l’impatto del sistema vacca da latte in termini di emissioni di CH4 (espresse in CO2eq) risultava in totale circa il doppio di quello odierno!

Ciò è stato reso possibile dallo spettacolare aumento della produttività per capo allevato e della contemporanea riduzione delle vacche (ma anche della rimonta) presente sul territorio nazionale. Il risultato è stato che le emissioni di CO2eq da metano si sono ridotte a ¼ e le stesse, rapportate alla superficie boscata italiana (che nel quarantennio è aumentata) si sono più che dimezzate.

Se si riferisce l’emissione di CO2eq alla proteina prodotta, osserviamo che il decremento delle emissioni è stato, nell’ultimo mezzo secolo, imponente: dagli oltre 25 kg degli anni ’60 si è passati a meno della metà nel 2015. Il principale motivo risiede nel miglioramento genetico che ha consentito di ridurre drasticamente gli indici di conversione alimentare (con un forte calo di incidenza del mantenimento sulla quota di energia utilizzata per le produzioni).

Come accennato prima, tuttavia, le tecniche di alimentazione, sempre più raffinate, quelle di allevamento e sanitarie, hanno contribuito in modo determinante a questo straordinario risultato. Analogamente, l’intensivizzazione degli allevamenti ha ridotto l’emissione di ammoniaca per kg di proteina animale prodotta.

Per quanto attiene, infine, all’accusa mossa al settore zootecnico di essere uno dei principali responsabili delle emissioni di gas a effetto serrigeno, possiamo tranquillizzare i nostri concittadini. Da nostri calcoli (che collimano con quelli prodotti da ISPRA, 2009) risulta che il contributo delle filiere animali alla produzione di CO2 è, in Italia, pari al 3,5% (circa il 50% delle emissioni totali del comparto agricolo). Nello specifico, la stragrande maggioranza delle emissioni è imputabile all’allevamento bovino da latte, seguito dal bovino da carne, mentre residuali risultano gli altri settori.

In conclusione, la progressiva intensivizzazione delle filiere zootecniche italiane osservata nel passato mezzo secolo ha consentito non solo di produrre proteine animali in grado di soddisfare, almeno in gran parte, le crescenti esigenze nazionali, ma ha anche reso possibile la drastica riduzione delle emissioni serrigene e azotate per unità di proteina ottenute: produrre di più e inquinare meno, la vera ricetta della sostenibilità.

 

Giuseppe Pulina

 

Fonte: Mangimi & Alimenti

Professore Ordinario di Chimica Agraria e Ambientale, Università Cattolica del Sacro Cuore. È membro del gruppo di lavoro PROMETHEUS dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA). Dal 2009 è direttore del centro di ricerca sullo sviluppo sostenibile OPERA, con sede a Bruxelles e a Piacenza. Dall’inizio della sua carriera databile 1987 ha svolto ricerche sugli impatti dei contaminanti nell’ambiente e nei prodotti alimentare, sugli organismi animali e sull’uomo, studi che oggi integra nelle sue indagini di valutazione del rischio.